Mi ci è voluto un anno per iniziare a leggere Infinite Jest di David Foster Wallace. Un mese per riuscire a orientarmi in una narrativa densa, frammentata e impegnativa da seguire e da decifrare.
Infinite Jest di David Foster Wallace è un romanzo folle.
Ancora adesso mi chiedo perché diamine ho avuto l’idea di leggerlo eppure, l’ho letto. Forse solo per sapere come l’autore risponde alla sua stessa domanda-barzelletta:
“Che cazzo è la letteratura?”
Ora, aiutandomi con la Prefazione di Tom Blissett, scrivo a mia volta ciò che ho capito (e cosa mi ha divertito) di Infinite Jest.
Infinite Jest di David Foster Wallace: qualcosa sulla trama
A cominciare dall’incipit, Infinite Jest ha l’effetto di inchiodare il lettore alla narrazione e di intrappolarlo nel personaggio:
“Mi siedono in un ufficio, sono circondato da teste e corpi”.
Ci vogliono parecchie pagine prima di capire che il personaggio nel quale si è entrati è la brillante promessa del tennis agonistico, Hal Incandenza, in silenziosa attesa di sentirsi dire che è stato ammesso al college. Una formalità che viene interrotta continuamente dalle conversazioni degli esaminatori, da flashback sulla sua infanzia, dalla disamina dei suoi risultati scolastici in rapporto ai punteggi sportivi, dall’ingresso improvviso di altri personaggi, contesti e situazioni.
Nelle prime 65 pagine di Infinite Jest, poco prima della crisi psicotica che condurrà Hal di corsa al pronto soccorso e che scaturisce nel momento in cui gli si chiede di parlare di sé per chiarire alcune sue incongruenze, l’autore narra di:
- Erdedy, un tossico pubblicitario in crisi d’astinenza;
- Orin, il fratello maggiore di Hal;
- una triste storia adolescenziale tra Bruce Green e Mildred L. Bonk;
- incubi, dipendenze e fobie di Orin;
- una relazione nascosta ma non segreta tra Hal e la droga;
- un attaché medico di origine araba ma cittadinanza canadese che si rimbambisce durante la visione di un misterioso video senza etichetta;
- una spiegazione sul perché i tossicodipendenti non sono inclini al crimine violento per poi tratteggiare la figura di Don Gately (apripista della schiera di tossici scassinatori, assassini, scippatori, sadici e psicopatici che attraverseranno le pagine successive).
In 65 pagine, con una molteplicità di punti di vista, cambi di inquadrature e caotico accavallarsi di personaggi e delle storie che si portano dietro, l’unico filo conduttore “affidabile” per orientarsi nella trama di Infinite Jest è la droga.
Se In un milione di piccoli pezzi di James Frey si racconta come gli stupefacenti frammentano un personaggio unico, in Infinite Jest la droga è l’unica cosa che fa da collante per gli spezzoni di cui il romanzo è composto facendo confluire i vari personaggi in due punti precisi, disposti specularmente uno di fronte all’altro:
- La Enfield Tennis Academy (ETA) contenitore e potenziatore dei migliori talenti del Tennis (sport per altolocati) oltre che futura élite della società americana. Se Hal è la punta di diamante e il fulcro di tutte le aspettative della scuola è anche perché è il figlio del fondatore, James Incandenza (ex tennista, ex scienziato ottico, ex alcolizzato e regista di film d’Intrattenimento di scarso valore commerciale) e della preside, Avril (donna altissima e bellissima, una canadese con la mania delle pulizie e la fobia degli spazi chiusi e poco illuminati);
- La Ennett House, centro di recupero e ultima spiaggia per i tossici più disperati. Quelli disposti a ricordare i fallimenti e i traumi che li hanno resi dipendenti dalla droga, pur di rientrare in possesso di ciò che resta della loro umanità. Tra lo staff di riabilitati, il primo garante dell’integrità e dell’efficacia della Ennett House è l’ex promessa del football (sport popolare) Don Gately.
Da questi dettagli la trama di Infinite Jest, nonostante tutto, si presenta strutturalmente molto semplice e alquanto scarna.
Pare che l’autore abbia “semplicemente” tirato su due pareti sulle quali ha affisso le immagini e le informazioni dei personaggi che si intersecano fra loro tramite dei fili singoli, non intrecciati fra loro. Un po’ come i tabelloni che si vedono nei film e telefilm americani quando l’investigatore più bravo è chiamato a risolvere un caso particolarmente complesso di omicidio. I fili narrativi così disposti non costituiscono un tessuto narrativo compatto e omogeneo ed è per questo che la trama di Infinite Jest appare scarna.
Considerando le relazioni scritte da Hal sui telefilm polizieschi e come sono cambiati dagli anni Sessanta agli anni Novanta, le pagine dedicate al crollo di emittenti televisive causa pubblicità aggressive e le conversazioni tra Marathe e Steeply (spie, rispettivamente, canadese e americana) il parallelismo non è poi così lontano dalla realtà del romanzo.
Per una lettrice tendenzialmente ottocentesca come me, la trama di Infinite Jest e suoi movimenti interni appaiono sballati e disorientanti.
Una sensazione poco divertente che, sul finale, fa anche un po’ girare le scatole. Tuttavia, resistendo all’impulso di scrivere: – E quindi? – come se fosse un The End e malgrado la netta percezione che l’autore abbia volutamente lasciato dei fili scoperti e dei contatti mancanti, ci si rende conto che si è rimasti incollati alle 1179 pagine di cui il romanzo è composto come se si fosse ancora all’inizio della lettura, nel bel mezzo di un’allucinazione in cui si ode qualcuno o qualcosa sghignazzare. Touché, Wallace.
Trama a parte, perché Infinite Jest di David Foster Wallace, romanzo i cui estremi sono la comicità e la tristezza, funziona come opera letteraria?
Perché, secondo la Prefazione di Tom Blisset:
Infinite Jest è il primo grande romanzo imperniato su Internet
Quando l’autore fa entrare chi legge negli spogliatoi dell’ETA per sentire i dialoghi dei ragazzi più grandi, sembra di stare davanti al feed di una qualsiasi piattaforma social. Le frasi dei personaggi introducono molti argomenti ma sono tutti privi dei nessi utili a creare un discorso unitario e preciso.
La descrizione della gerarchia scolastica e di come gli studenti socializzano fra loro, dividendosi in Fratelloni e Fratellini, ricordano molto le strutture e le dinamiche di Facebook e dei gruppi che è possibile creare per:
- commentare le chiacchiere udite nello spogliatoio;
- capire come funziona il sistema e con quali regole;
- sapere cosa deve fare l’individuo per totalizzare il maggior numero di punti al fine di salire di livello sia sul piano sportivo sia su quello sociale, per emergere al di sopra della collettività;
- riunirsi attorno al giocatore di maggior successo e pendere dalle sue labbra;
- disquisire fino alla nausea dei dettagli e delle minuzie tecniche necessarie a padroneggiare il gioco;
- giocare a carte per apprendere i trucchi e le furberie per ottenere i risultati che si vorrebbero ottenere senza sottoporsi ad allenamenti costanti e massacranti.
Spazi di discussione in cui campeggia il senso di ansia, spaesamento e solitudine dei Fratelloni (Hal, Pemulis, il canadese John Whayne, Struck, Troeltsch, Stice) e dei Fratellini ai quali i primi dovrebbero fare da guida e modello:
“I Fratelloni si trovano in una posizione delicata: da un lato si chiede loro di tenere informati i protettori su chi fra quelli sotto la loro responsabilità si mostri pericolante in termini di determinazione, tolleranza alla sofferenza e allo stress, nostalgia, affaticamento; ma allo stesso tempo devono restare spalla fidata e alla confidenziale per i problemi più privati e delicati dei loro Fratellini”.
In un sistema fondato sulla disuguaglianza, il romanzo raccoglie questi e altri esempi sulla libertà di parola della realtà americana e come questa però non garantisca il diritto all’ascolto. Almeno, così mi spiego (per citare altre minuzie) l’inserimento nella narrazione di storie sullo scarso successo del videofono e del successo di filtri che veicolano un’immagine distorta di sé.
Scritto in un’era in cui i Social Network non esistevano, David Foster Wallace non fa altro che trasferire dati e informazioni inerenti la cultura, i costumi e la mentalità americana in un romanzo il cui format non è poi così diverso dalle piattaforme realizzate, configurate e proliferatesi via Internet su scala globale.
Stare dentro Infinite Jest equivale a stare su Internet, “esistere e figurare” per mezzo di una socialità made USA. Un Intrattenimento nel quale si entra ma non se ne esce e che, per questo, crea dipendenza.
Infinite Jest è un romanzo autenticamente e pionieristicamente imperniato sul linguaggio
In Prefazione, Tom Bissell scrive anche che David Foster Wallace supera Joyce, Bellow e Amis nella creazione di:
“[…] spericolati neologismi, verbi derivati da sostantivi, sostantivi derivati da verbi, dando vita non tanto a un romanzo di linguaggio quanto a una nuovissima realtà lessicografica”.
Un’affermazione che non dice nulla di sbagliato o non veritiero ma della quale non condivido l’entusiasmo. A parte ciò, sul piano linguistico Infinite Jest mi ha dato l’impressione di:
- giocare molto e con insopportabile pedanteria sull’etimologia delle parole (Hal) per rendere più “vintage” o aristocratica la storia americana di fatto più recente e meno nobile rispetto a quella del Vecchio vecchio mondo di cui parla lo strano guru/elemento d’arredo dell’ETA, Lyle. Sembra si scherzi molto sull’idea che gli americani sappiano tutto sul significato ma che non abbiano capito nulla sul significante e, così, se lo inventano;
- sovraccaricare la narrazione di termini tecnico-scientifici, acronimi, modi di dire presi dallo slang di strada e mescolarli fra loro come se volesse comunicare un’idea di profondità e ricchezza ai linguaggi adottati dai personaggi per esprimere la loro vita interiore.
La realtà lessicografica ottenuta sarà nuovissima ma (ripensando alle pagine in cui si sostituisce la parola Empatia con Identificazione e quelle occupate da un dettagliato elenco dei creativi neologismi usati per indicare l’attributo maschile) sembra sottolineare quanto sia povero e limitato il linguaggio del romanzo e classista l’idea che il pensiero comune ha di essere umano
I personaggi, attraverso tale linguaggio, sono velocissimi nell’assimilare e mettere in pratica quello che serve per vincere, imporsi come i migliori nello sport o in ambito tecnico – scientifico ma, appena si trovano in prossimità della sfera umanistica, diventano incapaci di comprendere e gestire ciò che provano, capire ciò che sono. Perdono le parole e gli strumenti necessari a sondare l’anima rivelandosi tristi esistenze rachitiche e impotenti, sintonizzate sull’ascolto di Madame Psychosis.
Infinite Jest è il più avvincente dei romanzi imperniati sui personaggi
Opinabile l’uso del superlativo ma sostanzialmente vero.
Concordo anche sullo sconcerto del prefatore quando riporta le considerazioni di James Wood in merito ai personaggi di Infinite Jest. Si ha l’impressione che J. Wood non sapesse cosa dire sul perché i personaggi piatti (minori) che dovrebbero essere subordinati a quelli tondi (principali) risultassero più vivi e interessanti.
È che sembra che David Foster Wallace abbia usato tutte le tecniche di scrittura elencate in Come funzionano i romanzi per azzerare la distinzione tra personaggi piatti e tondi pur di dare profondità emotiva e spessore psicologico a tutti, a prescindere dallo spazio che occupano e dalle azioni che compiono. In tal senso, sono le domande che suscitano nel lettore a dare maggiore o minore risonanza ai personaggi riuniti nel romanzo:
- Erdedy compare nelle prime pagine, sparisce e lo si rivede verso la fine. Come ci è arrivato alla Ennett House? Perché? Da cosa vuole disintossicarsi, dall’erba o dal suo ruolo di pubblicitario?
- Pemulis, l’organizzatore dello spaccio di droghe e urina pulita dell’ETA, avrebbe avuto un amico, oltre che un complice, se avesse condiviso la sua storia personale anche all’interno del romanzo?
- Schacht è davvero così mediocre rispetto alla Vita come la intende l’autore attraverso la metafora del Tennis?
- ….
In Infinite Jest la caratterizzazione dei personaggi si basa soprattutto su quello che condividono e non condividono all’interno e al di fuori del romanzo. Non ci sono protagonisti perché, per ogni personaggio, Wallace lascia aperto uno spiraglio, un canale preferenziale con il lettore.
Personalmente, detesto Lenz ma la sua presenza mi ha rivelato che, mentre leggevo, sviluppavo una particolare preferenza per Don Gately. La sua specularità con Hal Incandenza me lo fa immaginare come il centro vitale di un romanzo che si sviluppa stando costantemente sull’orlo del baratro che distingue la letteratura da ciò che non lo è. La frase in cui Joelle confida a sé stessa e al lettore che per lui sarebbe disposta a togliersi il velo che la nasconde me lo fa percepire come l’unico personaggio capace di resistere alla Vita e di affrontare la Morte faccia a faccia.
Per me, Don Gately è il protagonista ma, con Infinite Jest, si è liberi di sceglierne un altro. (Grazie, Wallace)
Infinite Jest è il romanzo della sua generazione
Siamo giunti alla fase finale di questa semi-analisi del romanzo folle che è Infinite Jest. L’ultima domanda è, vale come opera letteraria capace di resistere nel tempo, andare ancora più in là dei suoi vent’anni dalla pubblicazione?
Scrive Tom Blissett:
“La descrizione wallaciana non rappresenta qualcosa di esterno; rappresenta qualcosa di esteticamente interiore, uno stato di apprendimento (e apprensione) e di comprensione. Lui non nominava una condizione, insomma. Lui la creava.
[…]
Ci ha dato un romanzo che ci avrebbe aiutato a definire la percezione del nuovo secolo”.
Rileggendo queste poche righe e tornando ad Hal inchiodato a una sedia, in attesa di essere ammesso al college, non vedo nulla che possa impedire l’accesso di Infinite Jest di David Foster Wallace tra i classici della letteratura.
È un romanzo che, tra alti e bassi, funziona per la sua narrazione in stile “tutto incluso” dove si racconta tutto quel che c’è da sapere (e non sapere) su ciò che si vede e non si vede della realtà americana, della realtà interiore della generazione alla quale si rivolge e della realtà di una mente bipolare. E non è poco.
Solo che, nel complesso, è divertente come un mattone sui denti (o come una finestra gelata sulla fronte sudata).
Autore: David Foster Wallace
Titolo: Infinite Jest
Traduzione: Edoardo Nesi in collaborazione con Annalisa Villoresi e Grazia Giua
Casa editrice: Einaudi
Pubblicazione: 2016 Ristampa
Pagine: 1280
Prezzo: € 19
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