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Perché non siamo il nostro cervello di Alva Noë: schema e riassunto

17 Settembre 2021
Perché non siamo il nostro cervello, Una teoria radicale della coscienza di Alva Noë

Menzionato in una delle passate newsletter, Perché non siamo il nostro cervello di Alva Noë è Una teoria radicale della coscienza trovata a una bancarella dell’usato dove vendevano libri a un euro.

Un notevole risparmio, guardano il prezzo di copertina, anche se uno dei motivi per cui ho scelto di leggere, schematizzare e riassumere questo libro è perché, sul retro, Oliver Sacks lo definisce:

“Un libro indispensabile per chiunque voglia comprendere il pensiero”

Perché non siamo il nostro cervello: una teoria radicale della coscienza

Nella Prefazione Alva Noë si propone per formulare una teoria radicale della coscienza che non sia per forza riconducibile alle teorie formulate dalla Neuroscienza e dalle scienze cognitive in genere.

Considerando il rapporto conflittuale tra Scienza e Discipline Umanistiche, Perché non siamo il nostro cervello si assume l’incarico di illustrare come e perché:

“gli stili di pensiero scientifico e umanistico richiedono una compenetrazione reciproca”

per formulare una teoria meno riduttiva su quale sia la sede da cui ha origine e si sviluppa la coscienza.

Il discorso di Perché non siamo il nostro cervello si articola passando attraverso otto capitoli intitolati:

e accompagnati da citazioni tratte dai pensieri e dalle considerazioni che sono state formulate sul tema da Ludwing Wittgenstein, Ralph Waldo Emerson, John Dewey, Antonio Machado, Maurice Merleau-Ponty, James J. Gibson e Saul Bellow.

Un’ipotesi sorprendente

Per comprendere la natura umana Alva Noë comincia con una similitudine in cui paragona la coscienza al denaro il cui valore è misurabile in base alle pratiche e agli usi che se ne fanno.

È una similitudine che serve per focalizzare l’attenzione sul concetto che la coscienza, quando emerge, lo fa in base ai condizionamenti esterni che influenzano il comportamento e definiscono un percorso esperienziale.
Mettendo da parte la convinzione che la coscienza sia una rielaborazione interna al cervello, l’autore sfata il mito che lo paragona a un computer impegnato a svolgere funzioni di raccolta e rielaborazione di dati e stimoli interni ed esterni.

Un computer che, anche se ne dà l’impressione, non è in grado di pensare. È uno strumento tanto quanto lo è il cervello e, per questo, viene distinto dal concetto di mente.

Per quanto linguisticamente identici, cervello e mente non sono sinonimi perché:

“La coscienza richiede l’operazione congiunta del cervello, del corpo, del mondo”.

Sempre secondo quanto compreso in corso di lettura, l’autore scrive che le neuroscienze sono inclini a pensare che la coscienza sia riproducibile in laboratorio (vasca di Petri) basandosi solo ed esclusivamente sugli studi condotti sul cervello senza però metterlo in correlazione con il corpo e con l’ambiente in cui vive e si muove.

A riprova di questa considerazione, Alva Noë riporta casi clinici in cui, nei pazienti in stato vegetativo o affetti da sindrome del chiavistello, sono state riscontrate attività neurali che ne dimostrano la vita cosciente ricordando agli scienziati stessi che il cervello, malgrado i progressi tecnologici che sono stati fatti per poterlo studiare, è ancora troppo inesplorato per asserire, senza ombra di dubbio, che possa essere artificialmente riprodotto assieme alla coscienza.

Vita cosciente

Un’altra convinzione comune riportata in Perché non siamo il nostro cervello è quella in cui si dà per scontata l’esistenza della coscienza lasciando insolute le seguenti domande:

  • Possiamo conoscere le menti degli altri?
  • Come decidiamo se le persone intorno a noi sono coscienti?
  • Ci sono altre specie, oltre a quella umana, dotate di coscienza?

Introducendo un dilemma filosofico, detto Il problema delle altre menti, l’autore ricorda che se non viene risolto prima questo è impensabile postulare la possibilità pratica di riprodurre la coscienza in laboratorio senza tener conto, inoltre, dell’umana inclinazione ad attribuire anche agli oggetti inanimati, come ad esempio i robot, una mente senziente.

Anche l’idea che mette in dubbio l’esistenza delle menti altrui, d’altra parte, non è possibile perché non tiene conto del coinvolgimento emotivo che gli esseri umani sviluppano relazionandosi tra loro, con l’ambiente, con gli animali. Alva Noë sostiene che:

“la questione se una persona sia di fatto cosciente o meno è sempre una questione morale, prima ancora che una questione riguardante la nostra giustificazione a credere. Anche solo il sollevare la questione se una persona sia o no in possesso di una mente significa porre in questione la relazione con quella persona”.

Paradosso sul quale è strutturato anche Blade Runner, il discorso di Perché non siamo il nostro cervello fa notare che la Scienza, per quanto progredita, ha una concezione ancora troppo meccanicistica del cervello, della coscienza, della vita in genere che, per essere risolti (e compresi) hanno bisogno di un’altra prospettiva d’osservazione che l’autore cerca nella biologia.

La dinamica della conoscenza

Per affrontare il problema mente/vita, il cervello non va inteso come prodotto finito (nel senso che gli studi su di esso sono ancora incompleti) seppure dalla letteratura scientifica prodotta è possibile sapere qualcosa di più:

  • sulla composizione del cervello e di come tali componenti sono organizzate;
  • in che cosa consiste la plasticità neurale;
  • quali sono le correlazioni tra le attività neurali e le modalità con cui esseri umani e animali fanno esperienza dell’ambiente circostante.

Rileggendo la documentazione e gli esperimenti volti a verificare le teorie percettive che ne sono derivate, l’autore conclude che una ridefinizione delle connessioni neurali non è sufficiente per cambiare la qualità dell’esperienza associata e non aggiungono nulla su ciò che determina il carattere della nostra esperienza.

Menti estese

Il cervello, si ripete, è uno strumento.

Attraverso il cervello, la mente coordina il carattere qualitativo dell’esperienza in stretta connessione con le percezioni sensoriali, le strutture, le forme e le abilità che il corpo mette in atto per relazionarsi con il mondo. Per questo il campo d’indagine va esteso per andare oltre la concezione del cervello come macchinario e prendendo atto che il corpo non è una vasca allestita per un cervello pressoché autonomo.

“Una persona non è una porzione isolata o un intero autonomo”.

In tal senso, sia la mente sia il corpo possono essere interpretati come uno schema che può essere modificato, distorto e anche esteso attraverso gli strumenti che utilizziamo per interagire con l’ambiente e relazionarci con gli altri come avviene, ad esempio, con il linguaggio e i Social Network.

Malgrado casi o esperimenti in cui si cerca di scorporarlo nei suoi elementi per studiarne la meccanica complessiva, lo schema di base (corporeo o mentale che sia) continua rimanere invariato e a essere percepito come integro. Con questo si sfata un’altra convinzione, già posta in dubbio dalla filosofia e da alcuni campi delle scienze cognitive, su cui la neuroscienza si basa per confermare la visione del cervello come un quartier generale che presiede, monitora e controlla tutto quello che accade all’interno e al di fuori di esso.

Abitudini

Secondo la teoria radicale della coscienza, le abitudini sono essenziali per la nostra vita mentale.

Leggere ogni giorno, ad esempio, è un’abitudine conseguente al processo d’apprendimento seguito per acquisire questa abilità.

“La conoscenza del mondo intorno a noi è reso possibile dal possesso di abilità”

La tematica di questo capitolo viene trattata in modo un po’ sbrigativo, superficiale quasi, e solo seguendo il come si formano per poi distinguersi in buone o cattive.

A prescindere dal valore intellettuale attribuito (e che non viene approfondito pur essendo di competenza delle ricerche umanistiche invocate dall’autore per controbilanciare le pretese scientifiche) le abitudini sono importanti in quanto corrispondenti a un pacchetto di risposte che adottiamo per interagire con il mondo e coinvolgerlo con la nostra coscienza.

La grande illusione

Argomento di discussione in questo capitolo è la rappresentazione del mondo come un’illusione creata dal cervello.

L’asserzione è riconducibile alle teorie della Scienza della Visione il cui compito principale:

“[…] consiste nello spiegare i meccanismi attraverso i quali il cervello rende possibile vedere molto più di quanto sia effettivamente presente nell’immagine impressa sulla retina”.

I principi teoretici formulati in tal senso, discussi punto per punto da Alva Noë, non spiegano nell’insieme come sia possibile ottenere immagini uniformi e dettagliate di un mondo che rimane su uno sfondo pressoché inesplorato.

Anche se la psicologia della percezione amplia il campo d’indagine parlando di coscienza della percezione (la capacità di intrattenere un rapporto con il mondo) l’idea che la realtà non sia altro che una grande illusione permane mentre per l’autore di Perché non siamo il nostro cervello:

“la visione è un’attività di esplorazione del mondo, la quale dipende dal mondo e dal pieno carattere del nostro essere incarnati. Lungi dall’essere in una grande illusione, il mondo è qualcosa in cui ci sentiamo a casa, è qualcosa di cui siamo parte. La percezione cosciente emerge dal nostro coinvolgimento con il mondo”

Si evince che, tutto sommato, anche la Scienza ha dei limiti dai quali deve affrancarsi se vuole progredire negli studi che conduce.

Esplorazioni

Descritte le attuali teorie scientifiche come esempi di cattiva filosofia, l’autore si assume l’incarico di contestare due Nobel per la Scienza (Hubel e Wiesel) e la teoria computazionale che hanno adottato per spiegare i processi della visione sulla quale la ricerca neuroscientifica si basa.

La sintesi della storia di Hubel e Wiesel e delle sperimentazioni – condotte dando per scontata la concezione del cervello come mero elaboratore di informazioni – e l’esplorazione della bibliografia prodotta in seguito sono i percorsi con cui Perché non siamo il nostro cervello esplora, ancora una volta, la concezione ingegneristica e non biologica della visione con il fine di confutarla a favore della sua teoria.

Per quanto ragionevole, la pecca della tesi di Hubel, Wiesel e, in un secondo momento di David Marr, sta nel rimanere ancorata alla convinzione secondo cui la visione è solo un problema di elaborazione del cervello e che la mente non è altro che un software.

Un nulla riservato per ogni cosa

Con l’ultimo capitolo, Perché non siamo il nostro cervello si sofferma anche sui sogni scrivendo che è improbabile che dalla loro analisi sia possibile estrapolare delle teorie concrete che confermino la tesi secondo cui l’origine e lo sviluppo della coscienza derivi da un’esperienza interna determinata dalla rielaborazione di informazioni che, recepite, durante lo stato di veglia, vengono riprodotte con altri schemi mentali.

Riprendendo le domande poste all’inizio per distaccarsi dal pensiero scientifico dominante la teoria radicale della coscienza proposta da Alva Noë chiude il discorso dicendo, semplicemente, che l’idea secondo cui “noi siamo il nostro cervello” non è altro che un pregiudizio scientifico. Da confutare adottando il buon senso e gli strumenti critici offerti dalle discipline umanistiche per far sì che la ricerca scientifica trovi nuove domande sulle quali basarsi per progredire.

Perché non siamo il nostro cervello di Alva Noë: schema e riassunto

Autore: Alva Noë
Titolo: Perché non siamo il nostro cervello – Una teoria radicale della coscienza
Titolo originale: Out of Our Heads. Why You Are Not Your Brain and Other Lessons from the Biology of Cosciousness
Traduzione: Silvano Zipoli Caiani
Casa editrice: Raffaello Cortina Editore
Pagine: 215
Pubblicazione: prima edizione, 2010
Prezzo: € 22

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