L’isola di Arturo di Elsa Morante è l’ultimo libro di un agosto dedicato alla letteratura italiana. È un romanzo, vincitore del premio Strega nel 1957, che:
“si impose all’attenzione della critica per l’impasto di elementi realistici e fiabeschi e la forte suggestione del linguaggio”
diventando un romanzo di formazione. Un’opera in cui l’autrice ha realizzato il desiderio, antico e inguaribile, di essere un ragazzo creando, per i lettori, un’opera incantevole e pungente.
L’isola di Arturo di Elsa Morante: trama e impressioni
L’isola di Arturo di Elsa Morante racconta la storia di un bambino che, orfano di madre, cresce solo a Procida.
Sull’isola, situata a poca distanza da Napoli, sbarcano, regolarmente, i detenuti destinati al penitenziario e, di tanto in tanto, Wilhelm Gerace, padre di Arturo e signore della Casa dei Guaglioni. Dimore che, uniche presenze fisse per il protagonista, sorgono a poca distanza dal centro abitato, leggermente isolate.
Il ragazzino che si dichiara orgoglioso di possedere il nome di una stella e trascorre le sue giornate esplorando l’ambiente circostante o leggendo i libri appartenuti all’eccentrico Romeo l’Amalfitano, nemico delle donne e padre adottivo di Wilhelm. La biblioteca, unica area della casa rimasta intatta dopo il saccheggio degli oggetti appartenuti al defunto proprietario della Casa dei Guaglioni, fornisce ad Arturo gli strumenti per stilare il suo personale Codice della Verità Assoluta:
“Fra i molti insegnamenti, poi che ricevevo dalle mie letture, spontaneamente io sceglievo i più affascinanti, e cioè quegli insegnamenti che rispondevano meglio al mio sentimento naturale della vita”.
e fornisce la materia prima per progettare i viaggi e imprese straordinarie che il ragazzo, lasciandosi condurre dalla fantasia e dall’immaginazione, sogna di affrontare con il suo eroe. Sono momenti in cui Arturo, da autodidatta, si prepara per meritarsi l’attenzione, l’affetto e, se possibile, l’amicizia del magnifico Gerace padre.
“Finalmente, un giorno, io credetti arrivata l’occasione che avevo sempre aspettato di dargli una prova di me! […] Erravo per quei fondi variegati e fantastici, fuori dai regni umani, bruciando, minuto per minuto, questa speranza ineguagliabile: di splendere, come un prodigio, agli occhi di Lui”.
Le lunghe assenze del padre dall’isola e la mancanza di una madre, della quale conserva un’unica fotografia ingiallita, sono piccole spine nell’animo di Arturo che, grazie ai ricordi che ha del balio Silvestro e della cagnolina Immacolatella, non sono sufficientemente dolorose per chiarirgli la realtà della sua solitudine.
In certi frangenti, l’egocentrismo di Arturo allevia il vuoto delle carenze affettive e relazionali che percepisce convincendolo di star trascorrendo un’infanzia felice, spensierata, libera e privilegiata.
Tutte le contemplazioni del padroncino dell’isola ruotano attorno al molo di Procida, tra le attese e i ritorni del padre. Gli unici dubbi emergono quando ripensa alla madre morta, immaginata come una magnifica regina che lo lega all’isola, e alle donne in genere. Dubbi che liquida sbrigativamente perché, d’istinto, sa che è ancora presto per rendersi conto che gli anni dell’infanzia si stanno allontanando e che, come desiderava, sta diventando grande.
“In conclusione, la scienza di mio padre non illuminava affatto la mia ignoranza, su quanto riguarda le donne”.
L’opinione negativa riguardo il mondo femminile viene tranquillamente accolta da Arturo fino a quando il padre non gli annuncia, a quattordici anni, che avrà una madre.
“E io, per la prima volta da quando ero nato, avevo provato un senso di rivolta verso di lui. Nessuna donna poteva dirsi mia madre, e nessuna che io volevo chiamare con questo titolo, fuorché una sola, che era morta!”
La sposa di Wilhelm, Nunziatella, si rivelerà appena più grande di Arturo il quale, a imitazione del padre e secondo i pregiudizi assorbiti, la tratta con malagrazia, al punto da rifiutarsi di chiamarla anche solo con il nome di battesimo e di rendersi conto che se ne è o se ne sta innamorando.
L’ingresso di una donna nella Casa dei Guaglioni e il rifiuto di menzionarla per nome appare come il puerile tentativo di un ragazzo che cerca di mantenere intatta l’aura di infanzia felice e incantata che si era costruito ma che che altro non è che un avvio al cambiamento e all’avvicinamento al mondo adulto tanto agognato.
L’isola di Arturo descrive con precisione millimetrica la metamorfosi del protagonista.
Carattere e personalità rimangono intatte e ad esse si intrecciano, confusi, vaghi e in linea con l’età adolescenziale, impulsi e sentimenti concreti come l’amore, la gelosia, il desiderio o l’egoismo. L’egocentrismo, le capacità di ragionamento e l’inclinazione a formulare delle spiegazioni che gli rendano comprensibile ciò che sta accadendo dentro e fuori di lui, ad Arturo, non bastano più. Il castello di infanzia felice, libera e spensierata svanisce a poco a poco ridefinendo l’idea di bello e brutto. L’isola incantata così come se l’era figurata Arturo crolla definitivamente quando realizza di aver amato un padre diverso da quello che era in realtà e prova delusione, dolore, odio. La speranza tradita da Whilelm e salvata in estremo, nelle ultime pagine dell’isola di Arturo, completano l’opera di Elsa Morante e mettono fine all’incanto.
L’unica cosa che rimane del romanzo sono la consolazione delle notizie che riguardano lo svolgimento della vita a Procida, il dubbio che forse il padre non aveva tutti i torti ad accusare il figlio di narcisismo e il proposito di fingere che quella felicità costruita con l’arte della narrazione non sia mai esistita.
L’isola di Arturo è uno di quei libri che vale la pena di leggere, in tutte le epoche, non perché si è imposto all’attenzione della critica o ha avuto successo vincendo un prestigioso premio letterario o perché Elsa Morante era la moglie di Alberto Moravia (come se il riconoscimento di un’opera letteraria fosse merito, riflesso o conseguenza di un matrimonio tra grandi scrittori) ma perché, semplicemente, è un romanzo che resta nel cuore per come illustra le sfumature dei sentimenti senza essere sentimentale.
L’isola di Arturo pare un amico sincero che vuol bene ai suoi personaggi e riesce a renderli comprensibili e degni di compassione a chi si prende cura di leggerlo. Sospende il giudizio e lascia qualche speranza sulle possibilità di decifrare un poco il mistero dell’esistenza, senza distruggerne del tutto l’incanto con la dimenticanza. Per questo è un romanzo incantevole e pungente, come le rose.
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