Lunedì scorso ti ho raccontato di una capatina a Trieste per incontrare Angela Del Prete e saper qualcosa di più sul tema del Triestebookfest che si è appena concluso.
Trieste è una città molto particolare. Emana energie contrastanti, positive e negative insieme e, proprio per questo, piace, attira, respinge. Seguendo queste sensazioni, sono andata al Triestebookfest e, forse, il resoconto che ne è derivato può spiegare qualcosa di più sul perché si sono manifestate.
Avviso ancora che, come al solito, il dono della sintesi ha preso il largo e s’è perso senza resistenze, tra i percorsi narrativi della letteratura, del teatro e del cinema delineati negli interni del Museo Revoltella tra il 20 e il 22 ottobre.
Mettiti comodo, si va in scena e spero che la lettura sia di tuo gradimento. 🙂
Triestebookfest: di viaggi, di ombre, di fasi, di letture e di disturbi mentali
La seconda giornata del Triestebookfest è iniziata con la presentazione del libro di Paolo Di Paolo, Una storia quasi solo d’amore, edito Feltrinelli. Tema del romanzo, è il viaggio e l’amore e di come questo sentimento viene percepito e ricordato da un titolo che da provvisorio è diventato definitivo. L’idea di base è che l’amore è qualcosa di semplice eppure complesso che getta luce sull’imbarazzo del raccontare qualcosa che viene espresso continuamente nella società attuale.
Al tema dell’amore, tòpos letterario, si collega il tema del viaggio inteso come esperienza esistenziale che, nel polverizzare le abitudini, genera disorientamento nelle identità di ogni personaggio che si presenta al lettore in Una storia quasi d’amore. Una scomposizione e ricomposizione che si delinea attraverso una voce narrante anziana che inizia con un:
“Eravate bellissimi”.
Un verbo imperfetto, un superlativo assoluto sono stati più che sufficienti per far partire una storia di vite che si intrecciano, si confrontano, si scontrano. Vite che appartengono a età e esperienze diverse dove ciò che ha avuto peso per uno, non ne ha avuto alcuno per l’altro. Curioso il meccanismo che, ad un certo punto, Paolo Di Paolo fa scattare nella dialettica dei personaggi e che indica come solidarietà fra sconosciuti. Una dinamica che entra in scena quando tutto sembra andare a rotoli e spiega che, tutto sommato, quando le età avanzano non si cancellano ma coesistono.
“Si può avere tutte le età insieme, nello stesso momento”.
Una simultaneità che è possibile mettere in scena solo tramite il teatro e che è stato messo in pratica da La compagnia degli sterpi. Una compagnia teatrale di Trieste che ha deciso di rimanere, di non andare a cercar fortuna altrove riqualificando una carrozzeria in disuso per trasformarla in una sala prove.
Per mettere in moto le cose, per raccontare la vita attraverso l’arte e la finzione dell’arte e che si connette all’intervento successivo del Triestebookfest.
“Oggi vi racconterò il doppio”.
Dice Marco Ongaro, invitato a parlare per l’incontro intitolato Il doppio, l’amore, la famiglia e la vita secondo Francois Truffaut. Partendo da una lettura di Otto Rank e menzionando di sfuggita Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde, il doppio si rivela qualcosa di strettamente collegato all’inconscio. Un corpo astrale, un’ombra. L’anima che determina e introduce il gioco di autofinzione.
La storia personale di Truffaut si mescola alla storia di Antoine Duanelle, la sua ombra e doppio. La prova che il critico cinematografico prima e regista poi ha ancora dubbi sul fatto se è e o meno sé stesso.
Antoine è l’ombra, è l’anima. Un’ombra che appare in tutti i film di Truffaut, che narrano del suo amore per le donne e si interrogano sulla discordanza tra desiderio maschile e femminile. Un’ombra non amata che sposta il bisogno di dare e ricevere affetto sulle famiglie delle innamorate, quasi a sostituire tutto ciò che al regista è mancato nell’infanzia.
“Perché le donne non ci desiderano per come noi le desideriamo?”
“Il cinema è fotografare donne in movimento”.
Ma le donne cosa ne pensano del cinema e della narrazione? Questa potrebbe essere la domanda che fa da collegamento al terzo incontro del Triestebookfest con Laila Wadia in da Bollywood a Trieste. L’autrice di Amiche per la pelle è una donna in movimento, figlia della prima donna indiana a divorziare e a risposarsi con un italiano, uno straniero. Una cantastorie che, giunta in Italia con appena tre parole in tasca, imparate dalla nonna e rivolte al cagnolino che portavano a passeggio per le strade di Bombay, coglie la sfida dell’apprendimento dell’italiano con determinazione e ironia.
“Parli come un cane” le dissero
“Come lo sai?” chiedeva Laila.“Una lingua è pongo, è gioco per me, non è qualcosa di cui aver paura”.
Alla narrazione scritta di Laila Wadia si accostano le trasposizioni teatrali e televisive di Amiche per la pelle, di cosa ha provato nel seguire questi passaggi e di come, pur con tutte le difficoltà e i contrasti che possono sorgere da una trasposizione e l’altra. I risultati spiegati dall’ospite sono stati percepiti come belli perché veri, seppur inseriti in arti che seguono il filo della finzione narrativa.
Il Triestebookfest si è articolato sul tema della finzione narrativa finalizzata a ricercare le tante sfumature della verità, in una continua indagine della psiche, del cuore, del senso e del non senso. Così mi è parso di capire nel corso della prima giornata ma, l’intermezzo con Valerio Fiandra è forse stato uno dei momenti più significativi della manifestazione.
Sul palco non un autore ma un lettore. Un lettore che, in cinquant’anni di libri, film e teatro, ha formato in sé spirito critico sufficiente per distinguere la forma dal contenuto e come la rappresentazione si rapporta al testo. Il riferimento platonico alla scrittura intesa come farmakon, sia rimedio sia veleno, fa da avvio al discorso del lettore.
All’analisi del tema del Triestebookfest si accostano ed emergono i significati di parole a cui diamo accezione negativa come il tradimento (dal latino tradere) la cui azione non è però commettere un danno all’opera originaria ma tramandarla.
Lo spirito critico diventa quindi fondamentale non solo per selezionare, assimilare e rielaborare ma anche per comprendere se un prodotto teatrale o cinematografico funziona oppure no. Se funziona, perché rifiutarlo, quindi?
Di tutte le cose che sono state sviscerate da Valerio Fiandra, la più affascinante è quella che riguarda il rito del lettore. Musica di prima mattina, per accompagnare un’ora di studio sul testo e un’ora di esercizi fisici da mettere poi da parte per dedicarsi ad altre attività o alla lettura di narrativa e/o saggistica. Perché questo rito? Perché:
“Se non seguo questo tipo di rito divento cattivo per me stesso e per gli altri”
Ed ecco che così la lettura, la costanza e la dedizione al libro accolto e ascoltato nella sua utilità oltre che nel suo valore estetico diventa qualcosa di terapeutico e consolazione e, forse, anche accettazione dei limiti e non dell’essere umano.
Almeno, questa è la percezione che ne ho colto. Nel dubbio e proprio perché è stato uno dei pochissimi interventi in cui non ho preso molti appunti, ho chiesto a Valerio Fiandra la scaletta scritta prima di intrattenere il pubblico con i suoi pensieri e le sue parole. Generoso, me l’ha donata. In cambio, apro e rileggo quei fogli anche solo per vedere come quelle parole scritte si sono fatte voce e, per mezzo della voce, evocazione anche di forme e immagini. La voce del lettore che ascolta e racconta la voce dello scrittore e dei creatori di arte. Suggestivo.
A chiudere la seconda giornata del Triestebookfest è stato Qualcuno volò sul nido del cuculo: la psichiatria tra finzione e realtà. Ammetto che inizialmente ho pensato di darmi alla macchia. Maurizio De Giovanni non ha potuto presenziare e l’incontro si è tenuto lo stesso con Peppe Dell’Acqua e Massimo Cirri i quali dovevano instaurare una chiacchierata sul disturbo mentale, i manicomi, il prima della legge Basaglia.
Temi forti, temi difficili, temi dolorosi che però possono essere spiegati in modo divertente. Non per deridere o colpevolizzare la società ma per far sapere cosa è accaduto dalla fine degli anni ‘70 in poi e per comunicare gli intenti dei libri della collana 180, pubblicati da Alpha Beta, con l’intento di trovare un percorso per:
“spiegare e impedire che determinate conoscenze non diventino un pasticcio nella smemoratezza”.
Triestebookfest: cinema, suoni, graphic novel e letture interpretate
La terza e ultima giornata del Triestebookfest ha assunto un andamento leggermente diverso rispetto alla seconda giornata. Al dialogo con gli autori si è affiancata la lettura scenica a partire dall’incontro di apertura con Renzo Crivelli su Joyce in scena: riscrittura teatrale dell’artista da giovane.
Renzo Crivelli, docente in letteratura inglese presso l’Università di Trieste, è stato tra i fautori del percorso joyciano per le strade della città e autore di un testo teatrale sempre legato alla figura dello scrittore irlandese.
“Ho provato a proiettarmi in una realtà che conoscevo bene come quella di Joyce”.
Ha spiegato il professore, premettendo la sua esperienza pregressa di critico teatrale per un giornale piemontese. La prova, suddivisa in tre atti:
- ricostruisce la psicologia di Nora, la compagna di Joyce. Una donna incolta che però ha saputo instaurare una relazione duratura (rimasero insieme fino alla fine) con uno scrittore geniale come James. Un legame in cui lui desidera indagare la psiche femminile e sa che solo chiedendo a lei può comprenderne i meccanismi. In questo senso Nora, la donna incolta, è vista come co-autrice di molti dei capolavori narrativi di Joyce tra cui Gente di Dublino.
- offre una visione di Trieste spettrale, quasi inquietante, attraverso il dialogo tra l’autore e Cicogno. Il proprietario di un’osteria vicina alla stazione e della quale Joyce era abituale frequentatore. Un dialogo drammatico che ha però richiesto di mostrare il contesto in cui nasce da un’altra prospettiva, quella di una Trieste duale che, di notte, si rivela carica di fantasmi, di ombre e di tormenti.
- immagina un incontro tra Joyce e Schiele e un dialogo fittizio in cui, ad accomunarli, è il senso di ingiustizia che provano sul come viene accolta la loro arte vista come oscenità. Ognuno narra all’altro la storia delle loro delusioni.
Il lavoro del professor Crivelli, in quanto basato su persone realmente esistite, non è un lavoro creativo. Non del tutto, almeno e, sulla base di questa consapevolezza, ha seguito un percorso quasi filologico in quanto sapeva di non poter far dire ai personaggi cose che, nella loro forma reale, non potevano pensare.
Joyce in scena: riscrittura teatrale dell’artista da giovane è stato alternato con la lettura scenica, intensa ed emozionante, di Sara Alzetta. Nel pensiero espresso da Nora e intrepretato da Sara, ho colto ed estratto una considerazione, un collegamento, una connessione con il tema principale del Triestebookfest.
“L’ombra dei sentimenti, talvolta, è più forte dei loro contorni definiti, è il rifugio delle illusioni”.
Inseguendo quel suono di Alessandro De Rosa, compositore milanese, è titolo del libro e dell’incontro successivo. Si tratta di un dialogo con Ennio Morricone da cui emerge la vita e il pensiero alla base delle sue composizioni, con tutte le innovazioni e le sperimentazioni scritte per cinema e televisione. Forse è stato uno degli incontri che più mi hanno emozionato perché mi hanno permesso di avere qualche riferimento in più su cosa vuol dire affermare che la musica non è solo grammatica dell’anima ma anche espansione del linguaggio.
La spiegazione di come Ennio Morricone ha strutturato i suoni del film C’era una volta nel West creando un’asicronia perfetta tra musica e immagine è stata molto affascinante. In pratica, le scene dei film presi in esame sono state strutturate sulle musiche creando un connubio perfetto e preciso tra musica e immagine. Più che sufficiente per mostrare le incredibili competenze tecniche del compositore.
Tuttavia, l’apice o il fascino dell’incontro si concentra nella fine, nel The End quando l’autore introduce il lavoro fatto in The Mission. In questo caso, si ha un’inversione. La musica viene composta solo dopo aver completato il film e trova massima espressione nei titoli di coda quando Morricone coniuga attraverso il linguaggio musicale che padroneggia tre culture diverse; quella dei gesuiti, quella di padre Gabriel e quella dei guaranì.
Una fusione spirituale comunicata attraverso la musica che vuole essere qualcosa di più di un accompagnamento alla narrazione ma una sottilissima e delicatissima distinzione tra atto d’amore per l’altro e l’atto d’amore sull’altro (ego). Dove sta l’apice dell’incontro? Nel breve spazio, nella pausa in cui De Rosa tradisce una certa emozione nella voce subito dopo aver detto che quel componimento lancia un messaggio molto forte, che commuove e rende vero l’avvicinamento tra culture diverse e riconosciute come tali, mantenute come tali e unite, attraverso la musica, pur nella loro distinzione. Fuse e distinte. Vero e finto. E, non O.
Su Dino Buzzati ho qualche reticenza. Non sono mai andata oltre le venti pagine de Il deserto dei Tartari trovandolo di una noia infinita, sfibrante, estenuante. Eppure la lettura di Paolo Valerio, con accompagnamento musicale al pianoforte di Sabrina Reale, di una Graphic Novel dell’autore bellunese è stata ipnotica. Non riuscivo a smettere di ascoltare e mi ha fatto piacere un autore per il quale ammetto di avere dei limiti. Esisteranno audiolibri delle opere di Buzzati? Magari, così mi riesce più facile superare questo blocco da lettore.
Non sparate sul regista è invece un simpatico bestiario del cinema americano scritto da Simone Cerri e presentato da Angela Del Prete, ultimo incontro e dialogo con l’autore del Triestebookfest.
Un intermezzo leggero e piacevole sui cliché e gli stereotipi che, costanti, compaiono nella maggior parte della produzione cinematografica passata e attuale come il bambino petulante che fa pesare all’eroe di una storia di non essere andato al suo saggio scolastico perché aveva da salvare il mondo dalla distruzione totale o il tubo elettrico impazzito, dotato di vita propria, immancabile nei film d’azione. Un libro più di consultazione che di lettura che però, nel riso, ci rende anche coscienti di come determinati stereotipi persistono per i motivi più svariati e che raccontano, in modo umoristico, anche una cultura di fondo.
Ad esempio, l’idea americana che il barista sia una sorta di filosofo con il quale intavolare conversazioni esistenziali non fa parte della cultura italiana dove il barista è colui che serve e, di solito, si fa i fatti suoi. Il lavoro di catalogazione dei cliché nel cinema di Simone Cerri può essere utile e interessante per capire queste cose e per riflettere su come dovrebbero muoversi cinema e spettatori per produrre e vedere qualcosa diverso dal solito creando un dialogo narrativo originale e non stereotipato. In quest’ottica, un seguito che prenda in esame non solo il cinema americano ma anche quello italiano, francese e tedesco, sarebbe un bel percorso. Istruttivo, sia per gli appassionati di cinema o sia per chi ne fruisce saltuariamente. (Chissà se nel libro racconta anche dell’eliminazione di un personaggio scomodo tramite aerei o elicotteri…)
A chiudere il Triestebookfest è stato Giuseppe Culicchia che si è reso disponibile per leggere alcuni brani tratti dal Moby Dick di Hermann Melville. Altro libro che rivela dei miei limiti personali più o meno come lo è stato Il deserto dei Tartari e che ho ascoltato volentieri fino a quando non ho dovuto andare via per non rischiare di perdere il treno.
Cosa curiosa, mentre Culicchia leggeva, nei passaggi di maggiore intensità si sentiva tuonare di sottofondo e ancora mi domando se era un accompagnamento sonoro alla lettura o se era dovuto al fatto che all’esterno del Revoltella pioveva e tirava vento.
A me piace pensare che sia una coincidenza tra artefatto e naturale e lasciare che il dubbio tra vero e finto rimanga aperto, in un mare di possibilità plausibili e non.
E a te?
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