A ripensare a quanto trascritto sul secondo atto di Scrivere sotto il sole, mi sono accorta che c’è un buco narrativo che riguarda la pausa pranzo.
Imparare a scrivere è anche assorbire tutti gli stimoli e gli argomenti di riflessione che compaiono non solo in corso di lettura ma anche quando ci si confronta con i propri compagni di scrittura al di fuori dalla classe.
Tra Antonio Tarantino e Caryl Churchill ho pranzato con l’allievo scrittore, poeta per la precisione, Giacomo. Si è dialogato di varie cose ma il tema fondamentale stava tra l’importanza del leggere e il desiderio di andare oltre lo scrivere per raccontare, lasciare una traccia, un segno di approfondimento, memoria dell’essere.
Parlando di queste cose mi sono tornati in mente Il vento non sa leggere di Richard Mason, libro ricordo donatomi da mia nonna, ex insegnante di Lettere e la figura intellettuale di Pier Paolo Pasolini.
Non so dirti con certezza perché trovo importante ricordare questo intermezzo, ma qualcosa mi dice che potrebbe farti piacere saperlo e aggiungere, di conseguenza, un tassello sul come la cultura comunica e si riveli in ogni luogo e circostanza, dal salotto letterario al classico tavolo di osteria con la tovaglia a quadretti.
Detto questo, vieni a leggere il terzo e ultimo atto di scrivere sotto il sole? Ci sono altri due autori da scoprire, Jon Fosse ed Elfriede Jelinek.
Scrivere sotto il sole: Jon Fosse, stati d’animo, parole contenitore e quarto esercizio di scrittura
Prima di partire con Jon Fosse, il terzo atto di Scrivere sotto il sole si è aperto con dei quesiti che possono apparire scontati ma non è così. Te li lascio a disposizione alla fine di questo post perché ora si va un attimo in Norvegia per vedere il non detto, stati d’animo e parole contenitore.
Le insegnanti del corso sono state molto precise, è importante contestualizzare i luoghi in cui vivono gli autori da leggere per imparare a scrivere. Con Jon Fosse si ha a che fare con grandi paesaggi, stanze, case isolate circondate da mare e coste lungo i quali si studia il rapporto tra la luce e l’ombra. Per la fama e l’apprezzamento in terra natia, Fosse viene considerato l’erede di Ibsen per la sua scrittura naturalista ma non riesco a smettere di pensare a un consiglio di lettura particolare. Una lettura che si colloca nel prima che Jon diventasse un autore teatrale. Appare, il titolo di un romanzo, Melancholia.
Romanzo e melancholia, sono indecisa su quale delle due parole abbia il suono più dolce, quella che contiene il desiderio principe che mi fa muovere scrivendo e leggendo? Lascio da parte la domanda, continuo ad ascoltare incantata il processo di dissolvimento dei personaggi messi in scena dall’autore norvegese.
I corpi spariscono, rimangono le voci, gli ambienti domestici non sono definiti, qualche volta appaiono e scompaiono volti femminili affacciati alle finestre. Non ci sono nomi di battesimo o che definiscono ruoli e abilità. Ci sono tanti figli, quasi a voler sottolineare il rapporto con l’eredità e il lascito alle generazioni. Tutto è legato ai cambiamenti degli stati emotivi delle figure rappresentate da Fosse. Non scrive per dei corpi, anche se sono necessari per rimettere in scena la parola intesa come poesia pura. C’è un senso di immobilità, di assenza di conflitto. Manca l’azione ma si ha comunque l’impressione che sia accaduto qualcosa.
In breve, i piani della comunicazione di Jon Fosse sono:
- dialoghi veri, emozioni universali,
- personaggi anonimi,
- risposte monosillabiche, verbi semplici. All’interno delle parole scelte ci sono significati diversi che si esprimono in momenti diversi e non devono essere troppo significanti. Il loro compito è evocare degli stati d’animo.
“Le parole sono contenitori degli stati d’animo”.
Affascinante a leggere e capire gli intenti artistici e drammaturgici di Jon Fosse ma, al momento dell’esercizio di scrittura, la fascinazione cede il posto al panico. Le insegnanti chiedono di scegliere un momento saliente de Lo zoo di vetro dove viene esplicitato un sentimento chiaro.
Luce/ombra
Tom: (neutro) Lei è Laura, mia sorella.
Jim: (fintamente allegro) Ah![Si stringono la mano]
Jim: che mano fredda.
[Laura si ritira nell’ombra. Il grammofono suona].
Mi invitano a provare a non raccontare. Difficile, difficile, difficilissimo. Riuscirò?
Scrivere sotto il sole: Elfriede Jelinek, agorafobia, superfici testuali e conclusioni aperte
La pausa pranzo spezza lo stato onirico e inconscio generato dalla scoperta di Jon Fosse. Non mi accodo a nessun allievo, voglio stare da sola, all’ombra dei miei pensieri, dei dubbi e delle domande, di immagini impresse e ancora da scattare. Anche così, il tempo passa in fretta e già si è di nuovo riuniti attorno al tavolo del Lino’s & Co.
Si parla di premi Nobel per la letteratura, emerge di nuovo il “caso” Bob Dylan ma la conversazione non prende altre strade. Si aggancia subito a un altro premio Nobel, Elfriede Jelinek. Lo sguardo di Anna Gubiani lancia scintille, c’è entusiasmo mentre narra la sua storia.
Elfriede Jelinek nasce in Stiria nel ‘46. Studia al conservatorio, inizia come poetessa e soffre di agorafobia. Se Caryl Churchill presenta una forte vena critica, Elfriede è di più. Prende spunto apertamente da fatti di cronaca austriaci mescolandoli con la mitologia. Polemica e molto forte nell’uso delle parole tanto da vietare, dal 1995 a oggi, la rappresentazione dei suoi testi a Vienna. O si ama, o si odia o entrambe le cose e, se con Jon Fosse il personaggio comincia a dissolversi, con Elfriede Jelinek scompare completamente.
“Nel teatro di Elfriede Jelinek c’è solo il linguaggio”.
Di lei si legge Viaggio d’inverno che prende spunto da un ciclo di poesie, 24 in tutto, musicate da Schubert nel 1927. Il tema ruota attorno alla figura del viandante e del tempo che passa e l’opera si dispone lungo 8 quadri teatrali. Caratteristiche di fondo:
- assenza di un filo conduttore,
- la trama passa in secondo piano,
- non esistono personaggi,
- continuo passaggio da un Io portavoce a un noi di gruppo,
- ripetizione di alcune parole,
- tecnica della superficie testuale dove pause e vuoti vengono riempiti.
L’esercizio di scrittura chiede di nuovo Lo zoo di vetro, il compito è di cercare una categoria di persone che possono essere usate come voce collettiva.
“Una volta sapevo attirare l’attenzione. Con il giusto trucco, l’outfit adatto e un po’ di frivola conversazione non è difficile aumentare il proprio seguito. Oh, ma il problema non è attirare l’attenzione, ma mantenerla. Io l’ho persa tutta. Un poco alla volta, senza accorgemene. Mi sono lasciata abbandonare perché non mi facevo più vedere.
Chi è quella ragazza. Quella che parla con Champ? Deve essere ricca, danarosa, benestante. Champ è un volpacchiotto, va dove gli interessa. Sa far fruttare, se gli va. E noi? Mica vogliamo rimanere con le pive nel sacco! No no. Andiamo a sentire anche noi di che cosa parlano quei due. Sia mai che non ci sia un margine di guadagno anche per noi. Graziosa, la ragazza. Oh, guarda. Si sta avvicinando anche Hudley. Lui e Champ sono buoni amici. Restiamo qui, anche lui può portare informazioni interessanti sulle quali trarre qualche profitto. Ma quanto chiacchiera, la ragazza? Ma poi, di che cosa sta parlando? Non allontaniamoci, non si sa mai. Ci sono anche i fratelli Cutrere. Lei sorride, loro sorridono. Lei dice qualcosa di già detto, gli altri annuiscono. Che bella! Che spiritosa. Annuiamo anche noi, non si sa mai. In fondo, è graziosa. Orpolà, è arrivato anche Wainwright. Uh, che faccia scura. Ce l’ha con uno dei fratelli Cutrere che sta facendo il cascamorto con la ragazza graziosa. Gelosia? Uno dei due si sta sfilando un guanto. Presto o tardi ci sarà un duello. Pop corn, ne abbiamo? Rimaniamo nei paraggi, non si sa mai.
Silenzio. C’è un tempo breve, tra la lettura ad alta voce e le considerazioni delle insegnanti che sembra non passare mai. Questa volta è più lungo del solito, nessuno fiata. Mi sale l’ansia, finalmente parlano. Buono l’uso di più linguaggi ma non si coglie una categoria specifica. Ci sono più voci, certo. Solo che si tratta di un coro che non esprime un pensiero univoco, manca un certo tipo di provocazione. Accolgo le critiche e mi sento felice. Ho forse fallito, ma almeno ho tentato, ho letto, ho scoperto e imparato cose nuove. Questo mi fa felice, dà senso alla passione per la scrittura.
Solo che ora il corso di scrivere sotto il sole è finito ed è arrivato il momento di far sedimentare la ricchezza esposta, analizzata e condivisa in tre atti. Come fare? Proseguendo l’esperienza in quanto lettori e sperimentatori e mantenendo con te la promessa che ho fatto all’inizio.
Scrivere sotto il sole: quesiti e risposte di un corso di scrittura
Non è possibile insegnare a scrivere ma si può imparare a farlo leggendo, apprendendo le regole guida che più fanno al caso nostro e, se è il caso e il momento, infrangerle per trovare la propria voce, il proprio stile, il desiderio che ci fa muovere tasti e penne nel bianco di una schermata o pagina. Da qualche parte bisogna pur cominciare e, alla fine di scrivere sotto il sole, l’inizio è dato da queste domande:
- Quali libri leggere per continuare ad esercitarsi nella scrittura teatrale?
- Quali libri sono i più interessanti per incentivare la lettura?
- Chi li pubblica e dove trovarli?
E accogliere, conservare e tornare sulle possibili risposte:
- Visitare la casa virtuale della drammaturgia contemporanea dramma.it dove ti si aprirà un mondo tutto da leggere e altrettanto materiale da scaricare e visionare con calma e pazienza.
- Leggere o andare a vedere qualche opera di Harold Pinter o dare un’occhiata a Segnali d’allarme e disagio durante la crescita di Gustavo Pietropolli Charmet perché potrebbe fornire molti consigli utili su come educare alla lettura fornendo a ogni problematica un libro.
- Una casa editrice molto interessante in questo senso è CuePress perché si impegna a pubblicare, a prezzi accessibili e in diversi formati, i testi di autori contemporanei subito dopo la messa in scena di uno spettacolo.
E tu? Quali quesiti avresti posto al corso Scrivere sotto il sole?
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