Davide è l’ultima storia firmata Raffaele Landolfi e ospite di Pausa racconto. Probabilmente ce ne sono altre che tiene chiuse in un cassetto o forse no, non si sa.
Se i racconti precedenti:
- Le porte, le ragazze, lo zen e la legge dell’accanto e la legge dell’ops
- 29 e, non smetto
- Ettore, gli stronzi e l’arte della commozione
sono divertenti ed evitano all’ultimo una piega amara, Davide è la storia di un’amicizia, è una storia drammatica, è una storia da sviluppare.
Io la ospito così, nella sua forma abbozzata e ancora da rifinire, malgrado mi sia permessa di fare una leggera revisione invertendo qualche parola qui, dei punti dove necessario. Spazi per far risaltare frammenti di un pensiero, di un’emozione. Se poi l’autore vorrà apportare qualsiasi tipo di modifica, io sarò qua a eseguire e rispettare la sua volontà.
A te chiedo solo un po’ di tempo per leggerlo e, magari, per lasciare impressione e suggerimenti nei commenti.
Pausa Racconto di Raffaele Landolfi: Davide, storia di un’amicizia
“Sono stanco, mi rincresce dirlo, mi piange il cuore anche, ma è così. Sono stanco.
Si può essere stanchi a 25 anni? Sì, può accadere.
Non c’è bisogno di fare tutta una vita disgraziata. Basta passarne un paio, anche tre, di anni, nello schifo più assoluto. Per arrivare a questo punto”.
Le parole di Davide mi girano in testa da un po’. Hanno spostato il cervello e pogano da una parete all’altra come se fossero ad un concerto dei Blink182. Non gli ho mai voluto dare ragione, mai, ma gli sono sempre stato vicino. Del resto siamo cresciuti insieme.
Lui è stato sempre il mio completamento. Irrequieto e stronzo io, calmo e freddo lui. Due metà della stessa mela. Forse è per questo che il primo giorno che ci siamo incontrati sul
tappeto della palestra e ce le siamo date di santa ragione, fino a quando non sono arrivati i nostri genitori a prenderci a calci.
Abbiamo fatto la fine dei bimbi che vogliono fare i duri, si atteggiano a grandi, e poi calano
la testa nel momento in cui la madre li chiama dal balcone per salire a mangiare; avevamo 9 anni, nessun problema e due genitori (ciascuno) che speravano potessimo sfogare nelle arti marziali la nostra voglia di fare tanto casino. La sfogavamo, tra di noi, ma la sfogavamo.
Davide aveva quello che pochi altri avevano, uno “stile”. Combatteva con calma sfruttando gli errori degli avversari, attaccando quando doveva difendersi.
Vederlo combattere era qualcosa di speciale, di unico. Sembrava il vento che accompagnava i colpi degli avversari prima di scatenargli contro l’uragano, era fantastico.
Io ero l’opposto. Ragionavo come se subito dopo ogni incontro (ufficiale o d’allenamento) avessi avuto Angelina Jolie che m’aspettava nuda nello spogliatoio e, se hai la Jolie che t’attende nuda nello spogliatoio è normale che vai un pelino di fretta, no? Io andavo molto di fretta, al punto tale che mi chiamavano “3 riprese”. Con tutta l’irruenza e la forza che infilavo in ogni movimento più in là della terza ripresa non andavo. O vincevo in quel lasso di tempo, oppure crepavo sotto la pressione di due polmoni che m’abbandonavano al mio destino troppo presto.
A furia di darcele tra me e Davide nacque un rispetto incredibile. che ci portò Nell’arco
di pochi mesi da quel primo scontro diventammo amici per la pelle. Lui era tutto quello che mi mancava e viceversa, questa è stata la ragione principale del nostro affiatamento.
Da quel giorno siamo cresciuti insieme, le scuole, le comitive, le risse, le sbornie, i primi amori. Condividevamo tutto. Lui era per me quello che, da piccolo, definisci l’amico del cuore,ma più semplicemente era il fratello che non ho mai avuto, un fratello maggiore. Inizialmente perché era più alto e grosso di me ma poi con lo sviluppo le cose si invertirono, dai 13 ai 15 anni diventai, di botto, più alto e robusto di lui.

Immagine via Pixabay
In ogni caso, per me rimaneva sempre il “fratello grande”. Non è la robustezza fisica che conta ma quella mentale e lui è sempre stato più maturo di me. Perfino quando i suoi si sono separati.
La prese con “filosofia” ripeteva sempre:
“Ciò che conta è che si rispettino per sempre. Se non si amano più pazienza, non è mica un obbligo?”
No, non lo è, ma un figlio soffre anche se non lo dà a vedere; ma non tutti sono, o cercano di essere, forti come lui.
Per il fratellino è stato diverso, Marco non ha retto ed una sera, era il suo compleanno, si è lanciato dal secondo piano gridando, alla madre che lo guardava pietrificata:
“Miwa lanciami i componenti”
I componenti non sono mai arrivati e Marco ce lo portiamo nel cuore da ormai poco più di dieci anni. Una parte di me è morta a poco a poco, annegata in quei bicchieri che Davide aveva preso a mandare giù continuamente.
“Michele, accompagnerai Davide in America quest’estate? La nostra non è una domanda, è una richiesta. Vorremmo che si allontanasse un po’ da qui, dalla solita vita, vorremmo che si distraesse, ma senza di te è come mandarlo allo sbaraglio,e poi, senza di te, non andrebbe da nessuna parte, e lo sai”.
E così partimmo insieme. Lui portò, tra i bagagli, anche tutta la sua rabbia e la sua amarezza, il suo avercela contro questa vita reputata ingiustamente cattiva. Era un fardello troppo pesante da portare in giro nei vicoli di certe città americane dove uno straniero può facilmente sbattere la faccia contro un muro di guai.
Le nostre giornate procedevano spedite, ormai ci conoscevano tutti nel quartiere. Los Angeles sembrava non avesse segreti, il sorriso tornava a fare capolinea sul viso di Davide ed io, man mano che i giorni passavano, ero sempre meno “controllore” e sempre più “compagno di merende”, come ai bei vecchi tempi.
Poi arrivarono delle ragazze, arrivò il Plastik, una banda incrociò il nostro cammino,lui non si fece da parte (non c’era abituato), parole grosse, uno sparo, due,il sangue, la polizia, il buio.
Oggi ho 37 anni, vivo chiuso in queste convenzioni sociali che mi avvolgono sotto forma di un bel completo blu. Quello che ero ha fatto spazio a quello che sono. Gli anni passano ma le cose, le persone, le emozioni rimangono dentro di te sforzandosi continuamente di non essere dimenticate.
Sono al Gate di un aeroporto qualsiasi, in una città qualsiasi, in un giorno qualsiasi ad attendere un volo che non è qualsiasi. Su quell’aereo c’è Davide. L’hanno scarcerato 5 giorni fa non so in base a quale cavillo legale ed io sono qui ad aspettarlo, da solo, non mi sorprende che nessuno della sua famiglia sia qui, con me, a trepidare nell’attesa che scenda da quel fottuto mezzo meccanico.
S’è fatto 12 anni per aver ucciso un uomo.
Quando la vita sembra migliorare ed andare per il verso giusto ecco che un gruppo di persone ti riporta con i piedi per terra, sbattendoti sul muso quanto vivere e compiere determinate scelte possa essere difficile e tremendamente rischioso, perché poi devi difenderti, perché poi spunta una pistola e perché poi la usi.
E’ quasi identico a come l’avevo lasciato quella notte, in quel distretto.
Si avvicina e sorridendo mi dice:
“Non avevi proprio un cazzo da fare stamattina, eh?”
Lo abbraccio. Senza dire nulla ci incamminiamo verso la macchina, sistema la sua roba dietro, mi guarda e mi fa:
“Stasera dove andiamo?”
Senza neanche guardarlo sorrido e gli rispondo:
“A festeggiare!!!”
Perché, in fondo, certe cose, non possono e non devono cambiare mai, perché, in fondo, ho un debito con lui, perché, in fondo, quella sera, fui io a premere il grilletto, e lui, non ha mai voluto accettarlo.
Davide morirà dopo due anni da quel giorno in quell’aeroporto.
Succederà mentre guiderà una moto. Due anni nei quali abbiamo vissuto, lavorato, e cazzeggiato insieme.
Davide era il mio amico, lo è ancora oggi e lo è stato anche dopo che quell’imbecille gli ha tagliato la strada.
Lui era il mio amico, e lo rimarrà per sempre.
Ci sono persone che non dimenticherai mai e poi ci sono gli amici, quelli veri.
Ciao Amico.
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