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Pausa racconto di Daniele Fortunato: la morte di Anaia l’ingorda (2)

30 Giugno 2016
Pausa racconto di Daniele Fortunato: la morte di Anaia l'ingorda (2)

Ultimo giorno e giovedì di giugno. Ecco cosa accadde ad Anaia, protagonista del racconto di Daniele Fortunato.

(A proposito, le scene finali sono particolarmente violente. Se non vorrai procedere con la lettura, non te ne vorrò e ti aspetterò per la prossima storia).

Anaia si risvegliò in una vecchia catapecchia scricchiolante e completamente vuota. Non vi era nulla se non la lunga corda con la quale il suo aguzzino l’aveva legata a una trave.

Per la prima volta, nella sua lunga e agiata vita, lo spettro della morte aleggiava su di lei e non sui suoi servi. Ma l’aveva sfiorata l’idea che la morte avrebbe raggiunto anche lei e, in quel momento, era così vicina che ne sentiva le gelide carezze. La sua debole mente non riusciva a comprendere come era potuto succedere. Lei, Anaia di El – Fabri, la più potente famiglia delle terre del Nord si trovava legata, come un salame, al cospetto di un uomo che aveva crudelmente torturato.

Il pensiero che non sarebbe riuscita a cavarsela e che nessuno avrebbe mosso un dito per salvarla si fece strada nella sua testa e divenne così concreto, così tangibile che venne colta dal puro terrore e, resasi finalmente conto che la fine era vicina, scoppiò in lacrime.. Un pianto pietoso e patetico le rigava il volto. Le colava il naso, rendendola ancora più brutta di quanto già non fosse.

Il suo aguzzino l’osservava, ma l’angoscia della sua vittima le rimase indifferente anzi, il suo disprezzo crebbe a dismisura. Fu disgustato dall’assoluta mancanza di dignità che Anaia dimostrava e, quando ella gli fece una proposta di denaro per la sua liberazione, il suo animo tornò freddo e l’odio si fece più intenso.

“Ti darò tanto oro. Talmente tanto da far scoppiare questa catapecchia. Ti prego, lasciami libera. Non farmi del male!” implorò Anaia, tra i singhiozzi.

“Nemmeno tutto l’oro del mondo basterà a sostituire il piacere che proverò nel vedere la tua vita abbandonare, un po’ alla volta, il tuo patetico sguardo” rispose l’uomo, impassibile.

Allora la vittima cominciò a pregare sperando nell’aiuto divino. Urlò di rabbia contro il suo carceriere dichiarando che egli era in combutta con il demonio. Le parole che uscivano dalle sue grasse labbra erano cariche di paura e odio, indignazione e desiderio di vendetta. Confusa, arrabbiata, spaventata, implorante Anaia.

Per un attimo il suo carceriere meditò se fosse giusto ucciderla e abbassarsi così al suo stesso livello. Fu solo un attimo.

#PausaRacconto: la morte di Anaia, l'ingorda (immagine via Pixabay)

“Tu sei solo un mostro. Meriti ogni istante di dolore che io ti infliggerò e se il prezzo della vendetta equivale alla dannazione esterna. Poco male, l’accetterò di buon grado.”

Detto questo, il carnefice trasse dalla cinta un uncino arrugginito e avvicinandosi a lei con studiata lentezza, sentenziò: “Ora, Anaia El – Fabri, pagherai per la tua depravazione e per la tua ingordigia”.

Le tappò la bocca per impedirle di dire qualsiasi cosa che potesse mitigare la condanna o la colpa della quale era accusata e le conficcò, con violenza inaudita, l’uncino nel fianco sinistro. Lentamente, la punta dell’arma emerse poco al di sotto dell’ascella e legata l’altra estremità a una corda, cominciò a sollevarla da terra. Tra immani sofferenze.

Le urla di Anaia erano agghiaccianti. Rimbombarono nella catapecchia e al di fuori di essa incontrando solo silenzio e desolazione.

L’aguzzino fissò la corda. Anaia gemeva di dolore, era sul punto di svenire ma lui continuava a parlarle. Questa volta con voce dolce, quasi confortante:

“Questo è un dono! Il dolore che provi ora sarà un dolce ricordo quando giungerai tra le braccia di Satana.”

La osservò un poco e poi, come se si ricordasse solo in quel momento che aveva dimenticato qualcosa, voltò le spalle e, da un angolo buio della stanza prese un sacchetto:

“Qui dentro c’è del sale” spiegò paziente “ma è un sale particolare perché proviene dalle tue cucine, Anaia. Lo stesso sale che hai usato per condire i tuoi costosi, pregiati pasti. Lo stesso sale che hai aggiunto per condire le carni di mio figlio!”. L’ultima parola non fu detta, ma gridata.

“Nelle pieghe del tuo orribile corpo c’è mio figlio e io intendo riprendermelo!”

L’assassino sguainò il coltello, afferrò uno dei tanti rotoli di carne e grasso della sua vittima e lo tagliò di netto gettando poi, sulla ferita aperta una manciata di sale.

Fu una lenta, lentissima fine per Anaia, l’ingorda.

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