“È bello avere un lavoro, ma ciò interferisce con il tempo libero”.
Con questa citazione, tratta dall’ultimo segnalibro acquistato, ho cominciato la lettura de La versione di Barney di Mordecai Richler.
Per la verità, non sono sicura di aver compreso la battuta della frase in sé, mi ha colpito perché è un proverbio yiddish, linguaggio tipico degli ebrei dell’Europa orientale ampiamente utilizzato dal protagonista del romanzo di oggi.
È stata una coincidenza curiosa e non riesco a fare a meno di pensare che il segnalibro abbia svolto il ruolo di semaforo verde. Era giunto il momento di attraversare e percorrere la vita del protagonista, un ebreo alcolizzato e dal brutto carattere.
Vieni a leggere qualcosa su questo libro?
La versione di Barney di Mordecai Richler: trama dall’umorismo brutale
Sono ancora alla ricerca di un libro che mi faccia spanciare dalle risate e così ho creduto, ingenuotta che non sono altro, all’affermazione posta sul retro de La versione di Barney:
“Una delle storie più divertenti che ci siano mai state raccontate”.
La storia, in sé, non è che sia poi così divertente. Tutto sommato è l’autobiografia tristissima ma intensa di un uomo pessimo che ha avuto a che fare con l’ultima ondata di grandi scrittori e artisti riuniti nella Parigi negli anni successivi al Dopoguerra con i quali ha condiviso alcool, dubbie transazioni commerciali, risse e donne. La parte divertente è il come viene raccontata rivelando un senso dell’umorismo brutale ma efficace.
Barney Panofsky non è proprio una personcina di piacevole compagnia, è cosciente del suo brutto carattere, ipercritico con chi lo circonda e profondamente amareggiato dai colpi della vita. Tuttavia, mi ha conquistata fin dalle prime pagine e, arrivata a questo passaggio, ho riso per l’equilibrio perfetto che c’è tra ironia e sarcasmo vero e proprio:
“Mike mi ha ripetuto per l’ennesima volta che avrei il pianoterra tutto per me. Dà sul giardino, ingresso indipendente. E per i bambini, che sono pazzi di Venerdì 13, sarebbe fantastico passare un po’ di tempo col nonno.
Peccato che io detesti di essere nonno. Lo trovo indecente.
Dentro di me continuo ad avere venticinque anni, massimo trentatré, to’. Certo, non sessantasette, con quel che ne segue – la puzza di stantio e di sogni infranti, l’alito cattivo, le gambe che avrebbero un disperato bisogno di una bella lubrificata. E ora che mi è toccato farmi mettere un’anca in vera plastica, non sono neppure più biodegradabile. Gli ambientalisti mi negheranno il diritto alla sepoltura”.
Barney ammette tutti i peccati che gli vengono attribuiti, ovvero:
- di aver la capacità di far soldi seguendo principi etici e intellettuali inesistenti,
- di aver svolto egregiamente il ruolo di mostro maschilista con la prima moglie,
- di aver cercato di smentire la prima moglie con la seconda, sposata per interesse. Giusto per costruirsi la maschera di borghese rispettabile e morigerato,
- di aver amato perdutamente la terza moglie che poi l’ha scaricato dopo 31 anni di matrimonio e tre figli, ma per la quale nutre ancora un amore profondo, scandalosamente puro.
- di aver bevuto tutto quello che era da bere e letto tutto quello che non ci si aspettava che leggesse,
- di aver la passione per il tip tap e nessun talento nella scrittura, se non di lettere imbarazzanti inviate alle persone che avevano malauguratamente incontrato tutto il suo disprezzo.
Tuttavia, sul mondo dell’arte è perfidamente lucido, per essere un ubriacone:
“Per quanto mi riguarda tutti gli scrittori o i pittori che ho conosciuto, nessuno escluso, erano degli spudorati promotori di sé stessi, vigliacchi, pronti a mentire per un paio di lenticchie, avari da far schifo e disposti a tutto per un po’ di gloria”.
Parla per citazioni, magari con riferimenti e date falsate, ma cui senso delle parole rimane comunque invariato, forte, accattivante al punto tale da rendere La versione di Barney una biografia eccellente e in linea con il pensiero di uno studioso riportato dal protagonista:
“Se dei personaggi ci viene mostrato solo il lato migliore, restiamo sconfortati, perché riteniamo impossibile imitarli in alcunché. I grandi scrittori descrivono anche le azioni più basse degli uomini, non solo quelle virtuose. E questo sortisce un effetto benefico, perché risparmia all’umanità la disperazione”.
Ed effettivamente, leggere queste memorie fittizie, il cui filo conduttore sembra saltare di palo in frasca senza un motivo apparente, non innesca un immediato processo di identificazione con Barney piuttosto, se ne segue il decorso, il declino della memoria.
Una memoria difettosa, che resiste solo grazie all’immagine della terza moglie, Miriam, unica figura positiva dell’intera narrazione il cui abbandono ha gettato Panofsky nella disperazione e all’attesa per la riapparizione di Boogie, l’uomo e il migliore amico che tutti credono abbia assassinato.
Questo romanzo è un equilibrio precario tra bruttura e bellezza, amore e rabbia, verità e falsità. Tutto quello che rimane sono parole che verranno dimenticate anche se sono state messe su carta fissare, almeno per i figli, il ricordo di un’età perduta fatta di errori, ma mai di rimpianti.
Stupendo, non mi viene in mente altro da dire. Peccato averne concluso la lettura…
Autore: Mordecai Richler
Titolo: La versione di Barney
Titolo originale: Barney’s Version
Traduzione: Matteo Codignola
Casa editrice: Adelphi
Pagine: 490
Anno di pubblicazione: Ristampa 2014
Prezzo di copertina: € 13
Photo credit: immagine in evidenza via Pixabay
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