Il primo martedì di febbraio inaugura un nuovo ciclo di lettere ai grandi autori. Iniziativa lanciata da Bruna Athena.
Oggi, la lettera allo scrittore è rivolta, con un occhio di riguardo alla Teoria delle Maschere, allo scrittore, poeta e drammaturgo italiano Luigi Pirandello.
Caro Luigi Pirandello,
mentre scrivevo questa lettera ho pensato a tante cose.
Come a quella volta in cui i professori delle Medie Inferiori portarono alcune classi alla rappresentazione teatrale del tuo Il fu Mattia Pascal.
All’inizio fu un po’ difficoltoso, eravamo ragazzini che non la smettevano di agitarsi sulle sedie e di chiacchierare fra loro. Emozionati non poco perché quell’occasione, più che letta come un’opportunità di arricchimento culturale era una fuga dalle noiose ore di lezione, intervallate dal suono liberatorio della campanella.
L’attore protagonista dovette rimanere un attimo in silenzio e lasciar passare gli insegnanti i quali, con sguardo di fuoco, redarguirono il pubblico indisciplinato. Una volta stabilito l’ordine nel caos, l’interprete si calò nella parte e si presentò.
A teatro ci sono stata poco, ma quella fu la mia prima esperienza cosciente (almeno così mi piace pensare). Seguii le vicende del morto che non era morto con grandissima attenzione.
Le luci e le ombre del palcoscenico, la plateale gestualità dei recitanti che si avvicendavano fra un atto e l’altro e l’intonazione della voce, sempre chiara e forte ma sfumata per illustrare il senso della storia e le sue emozioni mi lasciarono incollata alla sedia.
Insomma, quella giornata a teatro mi piacque un sacco. Un po’ meno non trovare nessun coetaneo con il quale condividere la fascinazione che provai nel lasciarmi coinvolgere dalla tua storia. Tutti sembrarono trovarla noiosa e interminabile mentre a me parve fantastica, quasi meglio del cinema.
La cosa strana è che non lessi subito il romanzo. Dovettero trascorrere 10 anni da quell’esperienza per sfogliare le pagine de Il fu Mattia Pascal. Ero certa che avrei provato le stesse identiche sensazioni passate e, invece, lo trovai noioso.
Perdonami, ma te lo devo proprio dire ma, un conto è leggere le tue opere un altro è vederle in scena. Non è la stessa cosa e, delusa, ti lasciai momentaneamente in disparte.
In questi giorni, forse complice il Carnevale che volge alla sua conclusione, mi sei tornato alla memoria.
In questo periodo tutto è possibile, gli adulti tornano bambini e i bambini si travestono da grandi. In una illusoria corsa alla dissimulazione, le maschere sembrano ingannare il tempo facendoti tornare indietro o prospettandoti in avanti, a seconda dei desideri che ognuno nasconde dentro di sé nel corso dell’esistenza.
Adesso come adesso, il Carnevale rende il mio umore più variabile del solito ma, da pochi giorni, si è stabilizzato grazie alla visione di una piccina vestita da Cappuccetto Rosso (dovevi vedere che vestitino ricamato e ricco di dettagli. Un piccolo lavoro di sartoria, di quelli che facevano le donne dei tuoi tempi) e di un fanciullo dal viso simpatico e bonaccione, poco in linea con la sua divisa da poliziotto integerrimo e severo.
Bellissimi. Eppure quelle vesti rimandano ai dettagli dell’inconscio e al profondo desiderio di mettere ordine nel Caos della nostra natura irrazionale. I bambini, privi dei filtri e delle maschere che si costruiranno nel tempo, indossano i desideri e le paure inconsce dell’adulto. Un gioco, cosciente o meno, di simbolismi e richiami dei quali mai e poi mai potremo liberarcene. Perché fa parte del nostro DNA ed è ereditario.
Il Carnevale rende visibile ciò che, di solito e nel mondo dei grandi, rimane celato. In linea con la tua Teoria delle Maschere espressa in Uno, Nessuno e Centomila. Se i narratori russi possono essere, a ragione, definiti i chirurghi dell’anima della quale, penna alla mano, ne sezionano e asportano le parti più evanescenti e irrequieti, tu sei stato un chirurgo dell’inconscio, della mente. Di tutto ciò che concerne la psiche, insomma.
Sei uno dei pochi autori nostrani per il quale non ho smesso di provare, delusione a parte, una grande fascinazione.
Studiando anche la tua vita privata, mi sono spesso domandata come fosse vivere a stretto contatto con la follia. Senza mai arrendersi nella speranza di recuperare un’età d’oro in cui avevi tutto, giovinezza, denaro e amore.
Certo, hai saputo rielaborare il dolore e le notti insonni dando libero sfogo alla tua creatività e alla tua incredibile intelligenza. Studiando in continuazione, sondando il fitto bosco dell’inconscio, esponendoti alle sue trappole e ai suoi pericoli (un po’ come Cappuccetto Rosso) nell’intento di mettere ordine (come il bambino travestito da poliziotto) al Caos dal quale però non hai mai potuto affrancarti.
Ma, d’altronde, chi è normale e chi è esente da follia? Uno dei tuoi immensi pregi è una buona dose di coraggio nel vivere una vita immerso nell’irrazionale per dare una risposta razionale ai veri volti che si nascondono dietro le maschere che tu hai tolto e osservato da vicino. Talmente vicino da non riuscire a capire come tu sia stato in grado di dominar la paura di perdersi e cadere.
Dal Nulla siamo nati e, al Nulla, tu hai fatto ritorno. Eppure, quanto hai lasciato…
Con affetto,
una lettrice normalmente folle
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