Mi sono resa conto che a novembre non ho pubblicato la pausa racconto mensile e volevo rimediare tornando ad ospitare Francesco Ambrosino con un racconto intitolato C’è ancora tempo.
Prima di lasciarti alla lettura di questa storia agrodolce che racconta di un uomo che sta vivendo una bruttissima giornata, una piccola premessa sul nuovo racconto di Francesco Ambrosino: Vita, morte e miracoli. Ecco la foto della copertina.
Bella vero? Bene, è bello anche il racconto e l’autore si mantiene coerente con il suo stile di scrittura, semplice, pulito e scorrevole. Non so se è un rischio fare un confronto tra C’è ancora tempo e Vita, morte e miracoli ma ho voglia di correrlo perché, per quanto scritti in tempi diversi e con obiettivi narrativi differenti, li trovo meravigliosi.
Nella prima storia predomina l’atmosfera cupa e triste di chi ha perso il lavoro e che si trova ad osservare, senza ottimismo, lo scorrere della sua vita come il pendolare osserva, attraverso il finestrino del treno, il paesaggio cambiare sempre allo stesso modo. Forse, questa lettura non è adatta alla Vigilia di Natale? Non credo. Perché sono convinta che questo periodo non porti con sé solo festa e abbondanza. Lo stato emotivo d’allegria e speranza si mescola sempre a una vena malinconica che, in C’è ancora tempo, compare con grazia ed eleganza.
La stessa vena malinconica appare anche in Vita, morte e miracoli ma è più blanda e ciò che scorre davanti agli occhi del lettore sono scene e persone di paese. Macchiette che vivono lontano nel tempo ma che sono ben presenti nello spazio fisico che abitano. Sono piccoli scatti di un’umanità varia e variegata, perduta e ritrovata, che vive nei ricordi di chi è nato prima dell’avvento dei social.
Nell’introduzione al racconto, Francesco Ambrosino spiega chiaramente che determinate dinamiche e abitudini sociali sono venute meno con l’avvento dello spazio virtuale. Vita, morte e miracoli non è un’accusa al cambiamento, ma solo un ricordare, illustrare la realtà delle piccole cose, dei dettagli che, a prima vista, appaiono inutili. È un ricordare che siamo persone banali ma uniche, tutti con una piccola o grande storia da raccontare e da accogliere come se fosse il dono più prezioso di tutti.
Ora, conclusa questa premessa, ti lascio alla lettura di C’è ancora tempo.

Immagine via Pixabay
Pausa Racconto di Francesco Ambrosino: C’è ancora tempo
Era una giornata piovosa di novembre, una di quelle giornate buone solo per dormire, avvolti nel calore del proprio letto. Le gocce cadevano con una tale velocità da produrre una cascata lungo il vetro del finestrino del treno.
Scorgendo il panorama grigio e triste, Andrea rifletteva sulla sua disperazione.
Seduto in quel treno che, ormai da anni, giornalmente era solito prendere, non poteva non fare paragoni tra il cattivo tempo ed il suo stato d’animo. La carrozza del treno era, come sempre a quell’ora, vuota, fatta eccezione per un uomo anziano seduto in fondo ad essa. Andrea lo notò distrattamente, poi tornò ai suoi pensieri.
Era appena stato licenziato dall’azienda nella quale aveva lavorato per quindici anni, per tagli al bilancio.
Quando la mattina era stato convocato dal nuovo direttore del personale, un senso di ansia e stupore lo aveva colto. Si presentò nel suo ufficio e, dopo essere stato annunciato dalla segretaria, entrò nella stanza.
Da quando era stato nominato il nuovo direttore, circa sei mesi prima, non aveva mai notato quanto fosse giovane. Trentacinque anni, Laurea in Economia e Management alla Bocconi con Master alla Boston University, che mostrava con orgoglio sulla parete alle spalle della sua scrivania, sempre molto elegante e inevitabilmente griffato, quasi ad ostentare la sua posizione di uomo di successo.
Da quando si era insediato alla guida dell’azienda, non aveva mai scambiato quattro chiacchiere con i dipendenti, creando non poche tensioni.
Superato l’uscio, Andrea attese qualche secondo prima che il direttore, accortosi della sua presenza, lo facesse accomodare, ma per così poco tempo che non riuscì nemmeno a far defluire il sangue nelle gambe.
Con un sorriso bianco e lucente e degli enormi giri di parole, lo licenziò, e fu così bravo a farlo che riuscì quasi a convincere Andrea che fosse meglio così. Ripensando a quel momento, Andrea sentì riecheggiare la frase con la quale era stato liquidato:
«In fondo, cosa vuole che sia per un uomo in gamba come lei trovare un nuovo posto di lavoro, magari migliore?».
A quelle parole, gli scappò un sorriso. In effetti, si domandò come mai il suo essere in gamba lo aveva portato al licenziamento e non ad una promozione. Aveva un ché di grottesco. Ma quel suo sorriso accennato fece subito posto ad una smorfia di dolore. Un dolore fisico, che lo colpì al costato.
Lo stridio dei freni lo distrasse dai suoi ricordi, ma bastò la vista dello scatolone poggiato sul sedile accanto a sé a fargli rievocare quel momento.
Uscito dall’ufficio del direttore, si diresse alla sua scrivania. Iniziò, così, a riporre nella scatola tutti i suoi effetti personali, sotto gli occhi dispiaciuti dei colleghi di una vita. Penne, matite, blocchi, cartelline, ed una foto. La foto che per dieci anni non aveva avuto il coraggio di togliere dalla sua postazione. In una cornice di legno intarsiato, la foto ritraeva Andrea con la moglie. O meglio, la sua ex moglie, dalla quale aveva divorziato circa dieci anni fa. “Non sei abbastanza ambizioso”, questa l’accusa mossagli dalla moglie, chiedendo il divorzio.
Il fischio di un treno che procedeva a velocità elevata sul binario adiacente lo consegnò nuovamente al presente. Un tempo che non avrebbe voluto vivere. Guardò il cielo sempre più nero, illuminato solo da alcuni fulmini intermittenti. L’intensità della pioggia era aumentata, tradendo le previsioni del meteo che aveva annunciato un miglioramento nel pomeriggio. Sorrise, pensando che quel giorno stava procedendo proprio al contrario.
Il viaggio era ancora lungo, e Andrea ne era consapevole. Generalmente, il tempo trascorso sui binari non lo aveva mai disturbato. Mai fino a quel giorno. In quel momento, i minuti sembravano ore, prolungando così la sua agonia.
L’unico desiderio, in quel momento, era stendersi sul letto ed addormentarsi, sperando di risvegliarsi da quell’incubo nel quale era sprofondato.
Più il treno si avvicinava alla sua fermata, più il tempo peggiorava. Le nuvole sempre più fitte lasciavano precipitare una quantità ancora maggiore di pioggia. Andrea pensò che il giorno dopo il notiziario avrebbe sicuramente dedicato un servizio ai danni alle coltivazione provocati dal cattivo tempo e, mai come in quel momento, si preoccupò realmente per quei poveri contadini che si vedevano rovinare i propri orti da un fottutissimo temporale. Perché basta un attimo per spazzare via anni di lavoro, e Andrea se n’era appena accorto.
Alzando la testa, si accorse che l’uomo anziano seduto in fondo allo scomparto si era avvicinato. Ora era seduto al gruppo di sedili di fronte a lui. Era talmente immerso nei suoi pensieri che non se ne era nemmeno accorto.
Lo osservò con attenzione, come si osserva un mistero ancora da svelare. Avvolto nel suo impermeabile grigio stranamente asciutto, il vecchio rivolgeva il capo verso il basso. Il suo cappello vecchio stile impediva di scorgerne il volto.
Andrea, che era un uomo ricco di immaginazione, iniziò a delinearne la fisionomia: occhi chiari cerchiati da rughe spesse, baffo bianco che risalta sulla pelle olivastra, bocca larga e sottile ed una leggera fossetta sul mento.
Il treno, intanto, avanzava veloce verso una galleria, segnale che la sua fermata non era molto lontana. La pioggia picchiava il vetro con forza sempre maggiore ed il frastuono dei tuoni diventava ogni volta più spaventoso.
Entrando nella galleria, il suono prodotto dal treno cambiò. Era sempre stato così, ma solo quella volta Andrea se ne rese conto. A circa metà del tunnel, il treno iniziò a perdere velocità, rallentando fino a fermarsi completamente. Le luci che illuminavano le carrozze, si spensero.
Quel buio contribuì all’aumento del senso di ansia provato fino a quel momento da Andrea. Rimanere intrappolato in una galleria, al buio, era sicuramente il modo più adatto per concludere una giornata a dir poco da buttare.
Il disagio provato da Andrea per quella situazione cresceva sempre di più con il passare dei minuti. Nonostante il freddo, iniziò a sudare. La tensione aumentava, unendosi al suo senso di disperazione. La temperatura corporea saliva sempre di più, portando Andrea a pensare di essersi buscato un’influenza. Per un attimo, la sua attenzione si focalizzò sul possesso o meno di aspirine in casa. Si ricordò di averne, e si tranquillizzò.
I minuti passavano senza che la situazione migliorasse. Ormai era sull’orlo di una crisi isterica. Si sentiva soffocare, e un dolore al petto lo costrinse a sedersi. Fece alcuni respiri profondi, che arrecarono sollievo solo dopo qualche minuto.
Nonostante fosse coperto dalle pareti della galleria, il rumore dei tuoni e dei lampi rimbombava nello scomparto, aggravando il suo senso di angoscia.
Passarono altri venti minuti quando Andrea iniziò a percorrere avanti e indietro la carrozza, con la speranza di scaricare la tensione. Speranza disillusa.
Ritornando al suo posto, si ricordò di avere riposto nella scatola con gli effetti personali una piccola torcia che, stranamente, aveva trovato nel cassetto della scrivania. La prese e la accese. Il fascio di luce illuminò il vecchio, che era rimasto per tutto il tempo fermo al suo posto.
Andrea si rese conto di essersi completamente dimenticato della sua presenza. Era stupito dalla tranquillità del suo, a dir poco taciturno, compagno di sventura. Cercando di scambiare quattro chiacchiere, nella speranza di distrarsi dal pensiero di essere chiuso lì sotto da quasi un’ora, Andrea rivolse al vecchio la seguente domanda:
«Ma come fa ad essere così calmo?».
L’uomo, alzando lentamente il capo, mostrò finalmente il suo volto. Andrea, illuminandolo con la torcia, rimase senza parole. L’immagine che precedentemente si era fatta di quell’uomo era perfettamente corrispondente alla realtà.
Aprendo lentamente la sua bocca sottile, fino a quel momento tenuta sigillata, il vecchio rispose:
«Non bisogna mai disperare. Non ce lo possiamo permettere».
Quelle parole risuonarono nel silenzio dello scomparto, lasciando Andrea pietrificato.
Il click dell’avvio del motore precedette di qualche istante l’accensione delle luci. Finalmente, il treno ripartì, e il vecchio riassunse la posizione che aveva conservato per l’intero viaggio.
Il treno uscì dalla galleria, mostrando il cielo leggermente schiarito. Aveva smesso di piovere.
Andrea, ancora un po’ scosso, ripose la torcia nella scatola. Ripensò alla frase del vecchio. Guardò la foto che lo raffigurava con sua moglie, e pensò: «Forse, c’è ancora tempo!».
Photo Credits: Immagine in evidenza via Pixabay
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