Io, il metronomo e la Lettera 22 di Francesco Ambrosino è una pausa racconto che mi è particolarmente cara perché, per certi versi, ho potuto identificarmi con quanto l’autore va narrando.
In primo luogo per la descrizione e l’attaccamento affettivo che scaturisce pensando alle vecchie macchine da scrivere della Olivetti, quella con i tasti talmente pesanti che dovevi prendere la rincorsa per schiacciare anche un solo tasto. Fin da bambina fui affascinata da questo strano oggetto. Avevo pochi mesi quando, non so in che modo, mi sono tirata addosso la Lettera 35 di mia madre (senza particolari danni, credo). E poi, ricordo molto bene il ticchettio (per me fastidioso) del metronomo. Lo utilizzava la mia baby sitter quando doveva esercitarsi con il violino. Entrambi i suoni non mi piacevano molto, preferivo quello del pianoforte che, tuttora, non sono in grado di suonare.
Con questi ricordi ho letto Io, il metronomo e la Lettera 22 di Francesco Ambrosino. Quali saranno i tuoi?
Pausa racconto di Francesco Ambrosino: Io, il metronomo e la Lettera 22
Questa mattina mi sono svegliato vittima di una strana nostalgia. Dico strana perché legata ad oggetti che non ho mai utilizzato, ma che in qualche modo hanno fatto parte della mia vita, se non altro da un punto di vista fisico.
Mi riferisco ad un metronomo, che mia sorella utilizzava quando studiava solfeggio, e una vecchia macchina da scrivere da collezione di mio padre, la celeberrima Lettera 22.
Sono sincero, non ho idea del perché io abbia sentito questa strana sensazione, fatto sta che sono andato da mio padre ed ho preso in prestito i due oggetti.
Rientrato a casa, li ho sistemati sulla scrivania del mio studio e li ho osservati per lunghi e interminabili secondi, dopodiché sono andato in cucina per preparami un buon caffè.
In attesa che salisse il caffè, sono rimasto in piedi, con lo sguardo fisso nel vuoto. Il gorgoglio della bevanda che riempiva il raccoglitore mi ha ridestato, consentendomi di spegnere la fiamma prima di bruciare il caffè; un vero abominio per un napoletano, ma anche per uno scrittore.
Ho versato il caffè nella tazzina e sono andato nel mio studio. Mi sono seduto, ed ho iniziato a sorseggiarlo, lentamente. D’altronde si sa, il caffè si gusta, non si beve. Nel frattempo, con la coda dell’occhio guardavo i due oggetti presi in prestito da mio padre e che avevano contribuito al mio stato d’animo. Ho posato la tazzina, ormai contente solo un piccolo residuo di caffè e zucchero, e ho continuato a guardare la Lettera 22 ed il metronomo, senza sapere cosa cazzo farne.
Dopo un po’, stanco di stare lì a non fare una mazza, ho preso la Lettera 22 e l’ho sistemata al posto del portatile. Ho infilato un foglio di carta, cercando di imitare i gesti che ho visto fare mille volte in film e serie tv, ed ho iniziato a pigiare i tasti. L’inchiostro della macchina da scrivere era appena sufficiente a rendere visibili le parole, ma dopo due righe ho iniziato a prenderci gusto.
Mentre scrivevo, battendo con i due indici come un anziano rincoglionito fa oggi con un computer, con la coda dell’occhio ho visto il metronomo. Me n’ero completamente dimenticato. L’ho preso, l’ho guardato da ogni angolazione, come fanno i bambini molto piccoli con gli oggetti che non conoscono, cercando di capire come usarlo.
In realtà il funzionamento è molto elementare; ha un tasto di accensione e una lancetta che scandisce i BPM, i battiti per minuto, seguendo una scala d’intensità: Grave, Largo/Larghetto, Lento/Adagio, Andante/Andantino, Moderato, Allegretto/Allegro, Vivace, Presto/Prestissimo.
Il metronomo mi ha sempre affascinato, anche se non ho mai suonato uno strumento musicale né studiato solfeggio, ma l’idea di misurare il tempo in base al ritmo la trovo molto stimolante, anche poetica sotto certi aspetti. È come se ti consentisse di stabilire in che modo far trascorrere il tempo, semplicemente aumentando o diminuendo la velocità con la quale compiamo le azioni. Nella vita non è così, se tu sei fermo il tempo scorre lo stesso, non puoi bloccarlo né rallentarlo. In musica, invece, è come se si potesse, perché l’attesa tra una nota e l’altra è una sospensione, un istante di assenza, e credo che sia un po’ così anche nella scrittura. Tra una parola e l’altra esiste un legame indissolubile che va oltre la sintassi. È una relazione ritmica, tu leggi più o meno velocemente non per tua scelta, ma perché il testo te lo suggerisce.
Pensando a questa associazione tra musica e scrittura, ho deciso di fare un esperimento: scrivere battendo a macchina seguendo il ritmo scandito dal metronomo, partendo dall’intensità minore, quindi Grave, e aumentando piano piano fino ad arrivare a Prestissimo.
Ho fatto schioccare le dita, le ho agitate nell’aria come se stessi pigiando dei tasti invisibili, ho avviato il metronomo ed ho iniziato a scrivere, battendo molto lentamente sulla vecchia Lettera 22. Non pensavo, ma anche la lentezza stanca, così ho aumentato un po’ la velocità, passando in pochi secondi da Largo/Larghissimo ad Andante/Andantino.
Il suono della lancetta del metronomo, unito al rumore dei tasti pigiati con forza crescente, ha riempito la stanza, coprendo tutto, e proiettandomi in una dimensione quasi eterea e irreale.
Il passaggio da Andantino a Moderato è stato indolore, ma quello successivo, da Moderato ad Allegretto, invece, mi ha mandato in confusione, facendomi commettere due-tre errori di battitura. Ma non mi sono fermato, ho continuato a scrivere aumentando sempre più, progressivamente, l’intensità con la quale mi dedicavo alla scrittura di qualcosa che, in realtà, non sapevo nemmeno cosa fosse.
Avevo iniziato senza un’idea in testa, in maniera impulsiva, e dopo diversi minuti continuavo a non avere idea di quello che stavo scrivendo.
Non lo avrei mai detto, ma Allegro è un tempo proprio veloce, incessante. Ho iniziato a sudare, come quando vai sulla cyclette in palestra. I primi 5 minuti non t’accorgi di nulla, non sudi e ti senti fresco come una rosa. Una sensazione bastarda, perché è solo un’illusione. Dopo pochi minuti inizi a soffrire il caldo, il battito accelera e il respiro si fa più corto. Sudi, finalmente, e credi che lo sforzo sia quello, sudare, ma non è così. Il dolore lo accusi quando ti fermi, spesso dopo ore o giorni.
È stato così anche con l’esperimento del metronomo, che continuava a contare i BPM, muovendosi come i tergicristalli di un’auto.
Il passaggio a Vivace è stato traumatico, e mi ha costretto a scrivere per qualche secondo con un dito alla volta, riposando a turno le mani, ormai in preda ai crampi, senza stopparmi. Volevo arrivare fino in fondo. Se fosse entrato qualcuno in quella stanza e mi avesse visto ansimare e sudare battendo con violenza sui tasti di una vecchia macchina da scrivere seguendo il tempo dettato da un metronomo, beh…credo che mi avrebbe fatto internare.
Respirando a bocca aperta — o dovrei forse dire boccheggiando —sono passato all’ultimo livello d’intensità, Presto/Prestissimo.
Cazzo! Non avrei mai immaginato che sarebbe stato così difficile. Come fanno i musicisti a suonare dei ritmi così incessanti? Stoicamente, ho continuato a scrivere, fregandomene del dolore e della tachicardia. Non potevo lasciare che un metronomo mi sconfiggesse, ma è stata dura.
Completato il periodo che stavo scrivendo, ho premuto con forza il pulsante del punto ed ho staccato, come reazione elastica, le mani dalla tastiera della Lettera 22.
Ero distrutto, fisicamente e mentalmente, perché scrivere così veloce non è affatto facile, soprattutto quando si tratta di produrre un testo e non ricopiarlo, come facevano un tempo le dattilografe negli uffici.
Ho fatto un respiro profondo, roteato un po’ il collo per sgranchirlo, e, con calma, ho disattivato il metronomo. Ecco, quello che ho visto è stato molto strano. Ero convinto che spegnendo il metronomo, la forza centrifuga (o come cazzo si chiama) avrebbe fatto andare le lancette ancora un po’, rallentando progressivamente fino a fermarsi. Invece no, si è bloccata all’istante, e non so come diavolo sia possibile.
Sono rimasto ad osservare il metronomo con aria interrogativa, poi ho avuto un’illuminazione, se così possiamo chiamarla. Anche in questo ho trovato un elemento di paragone con la scrittura. Come la lancetta del metronomo, infatti, che si ferma appena viene spento, così un testo s’interrompe nell’attimo esatto in cui lo scrittore alza le mani dalla tastiera.
Le parole cessano di esistere nel momento in cui non vengono più prodotte.
Il silenzio è assenza di rumore, è una sospensione, ma esiste solo se prima e dopo c’è un suono.
Mi piace molto questo concetto, che qualcosa esista solo in relazione a qualcos’altro. Vale per la musica, che è interruzione del silenzio, così come il silenzio è sospensione del rumore; vale per la scrittura, che equivale a riempire un vuoto — fisico e figurato — con le parole, che a loro volta sono un intervallo tra uno spazio bianco e l’altro; vale per la vita, che esiste come intervallo tra la nascita e la morte, che non sono però l’opposto uno dell’altro.
Credo che sia per questo che si finisce col sentire la mancanza di qualcosa o di qualcuno solo quando non c’è più.
L’assenza fa paura, così noi la sospendiamo con la musica, i suoni, le parole, i rapporti umani, i sentimenti, le emozioni.
Abbiamo bisogno di sentirci vivi, aumentando e diminuendo l’intensità, come con un metronomo.
Io, il metronomo e la Lettera 22 di Francesco Ambrosino.
Photo Credits: immagine in evidenza via Flickr
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