Buongiorno e buon martedì. Oggi ho un’altra pausa racconto da farti leggere, sempre di Antonella Albano.
Hai conosciuto quest’autrice prolifica in diverse occasioni. L’ultimo suo racconto ospitato è Reietta e questa volta tocca a Il Madonnaro. Una storia, a mio avviso, dolcissima e che ha vinto, con ampio merito, il concorso del Caffé Letterario la Luna e il Drago nel 2012.
Sono contentissima di questo prestito da parte di Antonella Albano, è per me una manifestazione di fiducia che uno scrittore mi conceda di pubblicare su questo blog le sue storie. Se puoi, rendimi felice leggendola vino in fondo. 🙂
Pausa racconto di Antonella Albano: Il madonnaro
L’ovale del viso scomparve e dal biancore lattiginoso di quel margine estremo della coscienza emerse l’immagine: la donna supina, le braccia a coronare la testa, la fronte sul freddo nulla e l’attesa, in quel punto preciso dove il suo essere aspettava. Ma nulla giungeva a placare l’anima. Non c’era risposta…
“Elena!” la voce col suo tono urgente fece riaffiorare di colpo il suo viso nello specchio.
“Sì, arrivo, un attimo” lei fissò i propri lineamenti, sistemò i capelli con un altro colpo di pettine, si mise il rossetto dal colore tranquillo e uscì dal bagno.
“Amore, che è successo? Ti eri addormentata?” l’espressione ironica e tenera al tempo stesso non nascondeva del tutto la reale domanda di Giacomo.
“Niente, mi ero distratta un attimo, scusa” Elena gli sorrise, sforzandosi di non risultare sfuggente.
Gli occhi azzurri di Giacomo la accarezzarono, la mano scese a sfiorarle un braccio, poi veloce lui raccolse il cellulare e cose varie dal comodino.
“Ok allora, tesoro, buona giornata! Che farai oggi?” il tono leggero voleva nascondere la necessità di poterla immaginare in qualche modo, mentre sarebbero stati lontani.
“Le solite quattro ore al lavoro e poi vado a prendere Francesca da scuola, lo sai che mia madre non sta bene e Lidia lavora fino a tardi”.
“Va bene, allora io scappo, ci vediamo stasera, amore” un rapido bacio sulla guancia e Giacomo era già fuori dalla porta.
Elena sgombrò il tavolo della roba per la colazione e si accinse ad uscire di casa. Pregustava il tragitto che l’avrebbe portata allo studio di grafica dove lavorava, era un momento tutto suo e il grande viale alberato incorniciava i movimenti convulsi della gente che rapida raggiungeva il posto di lavoro o correva ai suoi affari. Solo più tardi i ritmi sarebbero diventati più languidi e i percorsi di ognuno sarebbero assomigliati di più a lente passeggiate accompagnate da chiacchiere o da rimbrotti al proprio cane che correva troppo. Le sarebbe piaciuto un cane, ma per ora…
Qualcosa di nuovo: un giovane, seduto sul marciapiede a ridosso del muro di un palazzo, accarezzava il suo meticcio, che lo guardava con grandi occhi marroni, e squadrava la porzione di mattoni che aveva definito col gesso bianco. Accanto a lui, aperto, un astuccio mostrava gessetti di tutti i colori.
Elena evitò attentamente di calpestare l’area girandole in tondo, ma lui non notò minimamente la gentilezza. Con gesti rapidi e sicuri si sfilò un elastico dal polso e si legò in una coda i capelli castani che gli spiovevano sul viso, mentre si metteva in ginocchio e, scegliendo un gessetto azzurro, cominciò a colorare un punto del disegno a ridosso del margine.
Elena lo seguì con lo sguardo mentre lo oltrepassava; la curiosità e, in qualche modo, l’ammirazione la riempirono: quel ragazzo era perfettamente concentrato e sembrava avere tutto quello di cui abbisognava per il suo presente. Mentre procedeva oltre si sorprese a scuotere la testa: cosa poteva saperne lei per giudicare! Non doveva essere affatto facile vivere in quel modo. Serrando il passo si avviò verso la sua giornata.
“Francesca! Sono qui, mi vedi?” Elena alzò un poco la voce in mezzo al vocio delle mamme che cercavano di farsi notare dai propri bambini che uscivano a grappoli dal portone della scuola. Qualcuno si mise in mezzo e lei cercò di frugare fra il colore e il movimento dell’uscita gioiosa dei ragazzini…
“Zia!” il gesto deciso le tirava la giacca da dietro. “Francesca, mi hai fatto lo scherzo un’altra volta!” Elena tirò il codino alla nipote e la abbracciò.
“Ma possibile che ci caschi sempre? Dai! zia Elena!” le fossette e gli occhi vispi illuminavano di furbizia il viso tondo di Francesca. Poi si voltò e diede una tirata allo zaino di un’altra bambina “Ehi, ciao Eva!”
“Ciao Fra” la bambina si girò un attimo e salutò con la mano la sua amica, le labbra rosa sorrisero nel volto pallido, ma a Elena sembrò che gli occhi rimanessero tristi, mentre la mano di una signora in tailleur la tirava via.
“Viene nella tua classe quella bambina?” Elena rimase colpita dai capelli biondi e dalla passività con cui si lasciava trascinare fuori dalla folla e verso la zona dove le auto in sosta dei genitori si assiepavano in attesa.
“Sì, Eva è arrivata da un poco, è molto silenziosa, ma sembra simpatica. La maestra l’ha messa vicino a me.” Francesca si aggiustava i codini lucidi e neri “Sono contenta però! Letizia mi rimbambiva di chiacchiere!” Elena scoppiò a ridere “Ma che tipo sei, tesoro mio!” si chinò a darle un bacio e la prese per mano “Andiamo? Mamma e nonna ci aspettano”. E si incamminarono per tornare a casa.
Alle tre del pomeriggio le strade ancora sonnacchiose lasciavano pietosamente Elena assorta nei suoi pensieri, e ne aveva bisogno dopo il pranzo in cui tre generazioni di donne avevano liberamente imperversato. Sua madre, sua sorella Lidia e la piccola Francesca stavolta però si erano astenute da commenti o domande su lei e Giacomo, fortunatamente.
Il fiume scorreva solenne alla sua destra. Quei tragitti a piedi erano la cosa migliore. Fra un paio d’ore lui sarebbe tornato e si sarebbero raccontati la giornata. Tornò a guardare l’acqua lenta: si muoveva senza parere nel letto largo, eppure lei sapeva che, quando gli argini si avvicinavano, quella stessa acqua diveniva tumultuosa, arrabbiata, pronta ad affrontare qualsiasi ostacolo pur di arrivare alla sua meta.
Elena rallentò fino a fermarsi, appoggiò la mano sulla balaustra di pietra e rimase a contemplare le secche in cui l’acqua sembrava accettare la sconfitta, la terra, gli arbusti le contendevano il suo fine e lei sembrava vinta, eppure … continuava a scorrere. E sarebbe arrivata, a qualsiasi costo. Si sorprese a sorridere, poi si riscosse: nella mente risuonò la voce di Giacomo “Elena!”.
Sorrise dell’auto condizionamento che la spingeva inconsciamente a non indulgere a quei momenti che erano solo suoi. L’amore del suo ragazzo esigeva una continua reciprocità e lei quasi si sentiva in colpa a godere così del tempo in cui poteva stare sola con se stessa.
Attraversò la strada per l’ultimo isolato prima del suo appartamento, aggirò un alto furgone per arrivare al marciapiede e … quasi calpestò la Madonna di Antonello da Messina. Si fermò in tempo e riprese l’equilibrio. L’azzurro assoluto del manto lasciava emergere solo il volto, assorto, umano, assolutamente naturale, con lo guardo perso su qualcosa di presente e lontano allo stesso momento…
“L’Annunciata di Palermo” la voce bassa la distolse dall’osservazione, dalla trance in cui l’aveva fatta cadere il dipinto bellissimo e meravigliosamente riprodotto. Sollevò lo sguardo e l’uomo della mattina era lì e guardava insieme a lei quello che lui stesso aveva creato. Aveva di nuovo sciolto i capelli che gli ricadevano sul viso rivolto verso il basso, lasciando scoperta la fronte alta e il naso diritto. Gli occhi di Elena tornarono al viso della Madonna e al suo sguardo. Il marciapiede grigio aveva lasciato emergere la bellezza, l’azzurro cielo, il colore dell’incarnato e la linea delle labbra; l’effetto era incredibile.
Poi Elena si forzò a sollevare lo sguardo verso l’esecutore di quella riproduzione. Sentendosi osservato, quasi controvoglia, il madonnaro si lasciò scrutare, ma solo dopo un po’ gli occhi si decisero a cercare quelli di Elena. Lei abbassò i suoi, accorgendosi di aver peccato di indiscrezione osservando così attentamente quell’uomo.
“Sei molto bravo…” mormorò, e dopo un momento frugò nella tasca e ne tirò fuori una moneta da due euro, che poggiò alla base del rettangolo di marciapiede. L’uomo si mise i capelli dietro l’orecchio e si sistemò più comodo, appoggiando la schiena al muro del palazzo dietro di lui. Accanto alla sua borsa dei gessetti ormai chiusa, su una stuoia imbottita, il cane sonnecchiava e il suo pelo beige caldo da labrador vibrava dei sogni puri dei cani.
“Lo sapevo, comunque” aggiunse Elena e, allo sguardo solo blandamente interrogativo di lui, continuò “… che era l ‘Annunciata di Palermo”.
“Buon per te” il tono tranquillo contrastava con il contenuto lievemente offensivo delle parole. Elena decise che era il momento di andarsene, ma la voce di lui la trattenne “…non volevo essere scortese”. Non la guardava, come gli scocciasse chiedere scusa, ma si sforzò di cercare i suoi occhi “La maggior parte delle persone non lo sa e spesso non gli interessa”.
“Ma a tutti fa piacere vedere qualcosa di così bello” Elena voltò solo la testa per rispondere, sorridendo di sfuggita, e riprese la sua strada.
“Che posso preparare da mangiare?” cominciò a interrogarsi nella mente e poi, coraggiosamente, imboccò il portone.
“Franciii!” Elena agitò la mano e in un attimo Francesca la raggiunse, agitando lo zaino sulle spalle nella corsa. Dopo un bacio veloce e una carezza sulla guancia vellutata, per mano zia e nipote si avviarono per la solita strada, quando un capannello attrasse la loro attenzione. Francesca cominciò a tirarla “Dai, vediamo zia!” Si fecero largo fra le persone e, seguendo gli sguardi che andavano verso il basso, videro sull’asfalto la faccetta enorme di Hallo Kitty disegnata a gessetti sul marciapiede. “Mamma! Hai visto che bello?” le voci delle bambine e le risposte tenere o frettolose delle mamme componevano un brusio allegro.
“Eva!” Francesca aveva tirato il braccio dell’amica che stava passando in quel momento “Hai visto? C’è un disegno per terra!” Lo sguardo serio di Eva si accese e, all’improvviso, si divincolò dalla mano che la teneva e con impeto fendette lo schieramento che impediva la visione del disegno. Si fermò sul margine e guardò il muso da gattina seria seria e poi, stranamente, cominciò a guardarsi intorno, scrutando le facce di tutti, cercando di arrivare a vedere sul marciapiede di fronte, speranzosa. Quando l’uomo che la teneva per mano prima, cercò di riprenderla, abbassandosi per convincerla che era arrivato il momento di andare, lei strattonò la mano e “No!” gridò, continuando a guardarsi intorno quasi con disperazione.
Elena guardava la scena stupita, poi a un tratto un coro arrabbiato di proteste giunse dalla piccola folla intorno al disegno. Un ragazzino ci aveva trascinato apposta il piede sopra, con l’intento di rovinarlo. Le mamme cercarono di fermarlo “Ma che fai? Non vedi come è bello?”, “Ma che cafone sto ragazzino…” finché qualcosa si scagliò come una furia contro il colpevole: Eva gli era andata addosso con tutto l’impeto del suo corpo esile e il ragazzino, per quanto robusto, era stato colto alla sprovvista. Prontamente gli adulti li separarono. “Che cosa hai fatto! Cretino!” Se non fosse stata trattenuta Eva gli avrebbe graffiato la faccia.
Aveva le lacrime agli occhi e i capelli tutti scarmigliati quando finalmente il signore che era con lei riuscì a tirarla via, parlandole con il viso vicino al suo, ma lei continuava a guardarsi intorno, fino a quando improvvisamente si fissò su un punto al di là del marciapiede. Gli occhi pieni di lacrime non sorrisero, ma continuò a tendere con tutto il corpo verso quella direzione, anche quando l’uomo la prese in braccio, zaino e tutto, per portarla verso l’auto che aspettava. Solo prima di sparire dentro la macchina sollevò la mano, alta, con le dita aperte. Pochi si erano resi conto della scena ed Elena fu l’unica a cercare di intravedere qual era l’oggetto di quello sguardo desolato, ma vide solo una sagoma che si spostava rapidamente.
Poi guardò Francesca, che le ricambiò lo sguardo, con il faccino triste.
“Eva sta in una casa famiglia zia, me l’ha detto oggi. Per questo è sempre seria, non è tanto contenta di stare là”. Pensò un attimo “Forse quel disegno per terra era per lei, non pensi zia Elena? Ha detto che era il suo compleanno, oggi”.
“Credo di sì, Francesca, può darsi”. Un pensiero le passò per la mente mentre si incamminava per la solita strada, per questo non fu stupita quando vide l’uomo, con le spalle appoggiate a un portone, che si passava la mano sulla faccia. Era il madonnaro. Si guardò la mano tutta bianca e si rese conto che si era sporcato e fu con rabbia che, con il polso, cercò di sistemare quel miscuglio di gesso bianco e lacrime che lo segnava.
Quando vide Elena e Francesca, si voltò verso l’angolo del portone, come a nascondersi, solo dopo riconobbe lei. Si scambiarono uno sguardo veloce e poi ognuno distolse il proprio. Elena continuò a camminare, oppressa dalla tristezza, decisa a non far pesare quella che poteva passare per curiosità. L’uomo rimase lì, appoggiato a quel portone, con le braccia lungo il corpo e residui di gesso sul viso.
Era inginocchiata, piegata su se stessa, la fronte sulla superficie gelida, le palme all’indietro all’ingiù, rannicchiata intorno al vuoto del proprio sé…
“Tesoro, allora? Stavi dicendo?” Giacomo non lasciava mai cadere un discorso, gli inizi dovevano sempre avere una fine.
“Perdonami, mi stavo addormentando. Dove ero rimasta?” Elena si girò nel letto rivolgendosi verso di lui, il pigiama leggero grigio perla le copriva le mani fino alla punta delle dita. Si scostò i capelli e si passò una mano sul viso.
“Scusami, non volevo svegliarti, ma volevo sapere come è finita…”
“Nulla, Francesca si è un po’ intristita a vedere la sua amica in quello stato e ha detto che vorrebbe invitare Eva a casa sua qualche volta. La nonna era perplessa, ma Lidia le ha detto che era una bellissima idea”. Elena si passava i polpastrelli sulle labbra mentre sussurrava la fine della storia, omettendo il riconoscimento finale.
“Mah, forse tua madre potrebbe aver ragione, magari se la ragazzina ha avuto quella reazione potrebbe essere un po’ instabile… non credi? Potrebbe essere delicato interagire con lei”.
“Penso soltanto che è una bambina che deve essere aiutata a trovare qualche motivo per sorridere più spesso”, Elena accompagnò la frase con un leggero bacio e, girandosi, aggiunse: “Buona notte tesoro”. Giacomo rimase a scrutare per un po’ la schiena grigio perla e poi, come se avesse preso la sua decisione, tornò al giornale che stava leggendo, sussurrando a malincuore “Buona notte”.
Uscendo dal portone Elena non sapeva cosa aspettarsi, ma lì, all’isolato dopo il suo, notò la figura ferma appoggiata al muro. Per un attimo le balenò l’idea di fare il giro largo, attraversando la strada per raggiungere subito il fiume, ma la scartò “Perché poi dovrei evitarlo?” disse a se stessa e cominciò a camminare. Giunta all’altezza della Madonna disegnata sul marciapiede, notò che era ancora lì, un po’ appannata, con i colori meno brillanti, ma lo sguardo sempre assorto nel suo mistero. L’uomo era in piedi, il cane sembrava una statua al suo fianco, e scrutava proprio lei. Si avvicinò lentamente, pronta a salutare con un breve sorriso, quando le giunse la sua voce: “Possiamo parlare un attimo?” i capelli spiovevano sul viso, le mani in tasca uscirono lentamente mentre il suo corpo assumeva una posizione di attesa.
Elena si fermò, perplessa, indecisa su cosa rispondere; rimase in silenzio lì ferma, senza aiutarlo a rompere il ghiaccio.
“Io non conosco nessuno qui, ma… ho bisogno di una mano. E mi sono risolto a chiederla a l’unica persona che mi abbia rivolto la parola”. Si passò una mano sul volto, liberandolo dalle ciocche che lo attraversavano e svelando un imbarazzo profondo, come se stesse per rimangiarsi tutto: “È folle, mi rendo conto”.
Elena continuò a non aiutarlo, qualcosa la fermava. Lo osservava.
“Mi chiamo Jacopo…” gli occhi finalmente la cercarono, incerti. Qualcosa rispose in lei, tese la mano e disse semplicemente: “Elena”.
Negli occhi castani di lui si accese una luce. Ricordarono entrambi le lacrime del giorno prima; Elena lo aveva visto quando era più fragile e il contatto delle mani parve il congiungersi di due mondi. Ma fu breve; lei rimase in ascolto, interrompendo il contatto degli sguardi.
“Fra una settimana dovrò sostenere un colloquio con il Giudice dei minori; mia figlia Eva è in affido presso una casa famiglia” inspirò profondamente e continuò, con evidente sforzo. “Ho chiesto l’affidamento, ma devo dimostrare di avere un rapporto stabile e di stare attivamente cercando un lavoro o non me la daranno”. Si passò le mani ai lati del viso, spingendo i capelli dietro le orecchie, la guardava, ma Elena continuava ad ascoltare e tacere.
“Quando sua madre è morta non hanno voluto darmi la tutela a causa del tipo di vita che faccio” indicò con una mano lo zaino e il cane, sempre lì sull’attenti sulla sua stuoia, gli occhi sul suo padrone.
“Senti, lo so che è folle… non dovrei chiederti questa cosa” abbassò gli occhi “so bene che non hai nessun motivo per aiutarmi”, l’imbarazzo lo stava divorando: non era abituato a chiedere nulla. Lo dimostrava la vita che aveva scelto.
“Sostanzialmente mi stai chiedendo di mentire” la voce di Elena lo distolse dal disagio in cui stava affondando come in una palude.
“No” la risposta fu immediata “No. Io ho deciso che mia figlia merita questo cambiamento… che nulla finora mi aveva deciso a fare: mi troverò un lavoro. Eva è stata cresciuta dalla famiglia della madre, lei … non era riuscita a uscire dalla droga” gli occhi erano persi in un ricordo che bruciava ed era evidente come parlare di quelle cose era assolutamente inusuale per lui.
“E tu…” Elena gli piantò gli occhi in faccia “e tu, Jacopo?” si avvicinò lievemente.
“Mai droghe pesanti. E ora più nulla” sosteneva lo sguardo con fermezza e nello stesso tempo frugava negli occhi scuri di Elena, cercando con stupore l’origine di quella franchezza nel dialogo che lo stava spiazzando.
“Che c’è?” Elena piegò un po’ la testa sempre gli occhi nei suoi occhi.
“Nulla” lui cercò il conforto nel contatto col cane, gli accarezzò la testa e lui in risposta gli leccò la mano di sbieco.
“E lui dove starà?” la domanda di Elena lo stupì.
“Come?” aggrottò le sopracciglia senza comprendere.
“Durante il colloquio, no?” il viso serio di Elena si sciolse in un sorriso, come se lui fosse sciocco a non capire. Lo stupore e il sollievo in Jacopo si fusero in un’espressione indagatrice, mentre la contemplava inginocchiata ad accarezzare il cane “Come si chiama?” chiese lei.
“Dylan!” la voce di Jacopo non aveva finito di risuonare nell’androne del tribunale che già un turbine di pelo, muscoli e affetto lo aveva quasi travolto “Ciao” gli strofinò le orecchie cercando di liberarsi del suo abbraccio esultante. “Alla fine hai mentito…” guardava il cane, ma era rivolto a Elena, solo più tardi però i suoi occhi la cercarono.
“No” rispose laconica. Jacopo si raddrizzò e si girò completamente verso di lei, scrutandola. Lei scosse le spalle “Tutto quello che ho detto è vero” aggiunse semplicemente. Poi capì che lo sguardo stupito e fermo di lui non l’avrebbe lasciata senza una risposta.
“Domani mattina alle 9.00 hai un colloquio presso lo studio di grafica dove lavoro. La tua competenza è richiesta, non è stato difficile”.
“Be’ però hai mentito comunque. Del resto te l’avevo chiesto io… e mi dispiace”. Abbassò gli occhi mortificato “io non saprò mai come ringraziarti…”
“Se ne può parlare” fu la volta di Elena di accarezzare Dylan “e comunque, per quanto mi concerne, io non ho mentito…”.
“Ma… hai detto che la nostra è una relazione stabile e che sarai felice di occuparti di Eva…” Jacopo era spiazzato e gli occhi larghi frugavano il viso di Elena.
Lei gli lasciò un po’ di tempo prima di guardarlo e continuò a stropicciare le orecchie morbide del cane.
“Certo, mi sono dimenticata di chiederti se … sei occupato sentimentalmente. Poi da ieri nel mio appartamento si è liberato un posto, se sei interessato a un subaffitto…”. Sapeva bene che avrebbe dovuto sentirsi imbarazzata da morire in quel momento, ma non era così, sentiva dentro come un fiume che, dentro argini vicini, scorreva impetuoso verso la sua meta.
Quando sollevò il viso, si tuffò negli occhi di Jacopo, che non riuscivano a staccarsi dalle sue labbra e rimasero così, a lungo.
Photo Credits: Immagine in evidenza via Flickr, immagine a testo gentilmente concessa da Angelo Villani, marito dell’autrice del racconto, Antonella Albano.
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