Spesso dimentichiamo la nostra individualità pensando che online sia accolta e riconosciuta senza riserve quando, invece, viene gradualmente annullata o distorta.
Quando ci si rende conto di essere arrivati a questo punto, subentra la delusione. Non ci si rende conto di percorrere questa involuzione perché è vissuta in prima persona ed è filtrata dallo schermo di un computer.
A me l’idea di lavorare sui social, di condividere, chiacchierare e scoprire blog, realtà e persone nuove piace ma c’è sempre un ma.
L’individualità e la collettività, in qualsiasi tipo di contesto, esisteranno sempre ma gli ingranaggi che ne regolano l’interazione sono in continuo mutamento. Come mantenerli in equilibrio fra loro?
Individualità e collettività, in quale contesto coesistono meglio?
Non so perché ma la prima cosa che mi viene in mente quando si parla di gruppi Facebook e social in generale, mi appare sfumato il ricordo di una mia festa di compleanno.
Avevo invitato tutta la mia classe, ebbi pochissimi assenti. Forse perché sono nata in maggio, quando le giornate cominciano ad allungarsi e a profumar di primavera inoltrata e avevo un signor giardino dove poter correre, giocare a calcio, arrampicarsi sugli alberi.
Mi divertivo un sacco a stare con i miei compagni però un anno è capitata una cosa curiosa. Come una marea incontrollata, alcuni invitati sono entrati nella mia stanza, hanno trovato le mie bambole e ci hanno giocato a modo loro, staccando tutte le parti che era possibile staccare. Non mi ricordo se mi arrabbiai o meno però una volta che tornarono all’aperto, io rimasi in camera a riassemblarle.
Mio padre mi trovò lì, da sola, mentre tutto il resto del mondo era fuori e fui rimproverata per questo. Soprattutto perché i miei amici chiedevano di me.
Anche se il mio interesse era sistemare gli oggetti fatti a pezzi, uscii vergognandomi un poco per aver preferito la solitudine alla compagnia. Una volta fuori nessuno mi chiese perché non ero con loro e venni automaticamente inglobata nei loro giochi. Mi divertii, certo, ma ancora mi domando come si faccia a far parte di un gruppo preservando, al contempo, la propria individualità.
Anche se non sembra, preferisco la solitudine. In parole povere, mi faccio i fatti miei ma, nel mondo virtuale, c’è stato un periodo in cui passavo più tempo nei gruppi che sul mio profilo personale. Perché questa discrepanza?
Tuttora, quando vengo inserita in gruppi senza che mi si chieda il perché dovrei farne parte, mi irrito in quanto capisco che non viene richiesta la mia compagnia o il mio punto di vista. Non vengo accolta ma tirata dentro solo per ingrossare le fila di una collettività che non si interessa degli individui che la compongono ma che arruola gli stessi per poi bombardare il loro spazio privato di notifiche su questo o quel prodotto e/o contenuto. (E qua entra in gioco la scomposizione delle mie bambole).
Da quando sono su Facebook, i gruppi ai quali ho chiesto di potermi iscrivere si contano sulle dita di una mano. Alcuni rimangono con le notifiche “silenziate”, altri li ho abbandonati, su altri ancora bazzico volentieri perché mi è rimasta la percezione che chi mi ha invitata a farne parte ha avuto coscienza della mia individualità e, di conseguenza, la collettività che si è andata a formare risulta composta da individui che discorrono e dialogano fra loro senza invadere gli spazi privati di ciascuno. In tal senso, ben vengano gruppi propositivi e interessanti e, data la mia passione per la lettura, dedicati a libri, letteratura e quant’altro.
E fin qui tutto bene, me la posso anche cavare e nessuno si offende se me ne sto in disparte ad ascoltare né se commento per chiedere eventuali chiarimenti su un dato argomento. Ma quando devo condividere un mio contenuto?
I Social Manager esperti parlano di strategia e target di riferimento e a me questi termini non piacciono. Hanno un suono arido, più scientifico che umanistico e, questa cosa mi blocca perché ho paura di perdere quella sintonia che si è andata a creare con le persone che si riuniscono in un determinato spazio virtuale.
Quando scrivo un post mi piacerebbe condividerlo ma, pensando al gruppo dove vorrei inserirlo mi domando se sono invadente o meno e, seguendo il detto “domandare è lecito e rispondere è cortesia” condivido il link motivando il perché l’ho fatto e chiedendo pareri.
Se fino ad ora tutto quanto ho scritto ti pare una critica al mondo dei social, non è così. Le cose che meno gradisco e che tendono a ripetersi anche a livello virtuale sono le stesse che ho vissuto offline.
Nel corso dell’esistenza si cambiano amici e compagnie e quando questo avviene l’individuo, in un modo o nell’altro, ne soffre. Malgrado le similitudini, negative e positive che ci possono essere tra vita reale e realtà virtuale, negli ultimi anni mi sono adattata a diversi gruppi social e, come a molti accade, tendo a preferire la compagnia di persone fondamentalmente estranee ma con le quali condivido gli stessi interessi piuttosto che guardarmi intorno e stringere nuove relazioni amicali con persone diverse, che posso vedere e toccare.
Nel primo caso pensavo di riconoscere i meccanismi che vanno a ledere il mio modo di essere e correre ai ripari, nel secondo faccio fatica a mantenermi obiettiva perché richiede maggiore impegno e controllo emotivo per creare un legame che avvicini e, allo stesso tempo, mantenga determinate distanze.
Pensando a una puntata di Big Bang Theory, Sheldon sorprende i suoi amici affermando di essere su Facebook:
“Tutto ciò che mi separa dal contatto umano ha la mia approvazione”.
Dice (ora non ricordo la battuta esatta). Personalmente, non voglio perdere il contatto umano ma, come si fa a non “sheldonizzarsi” mantenendosi individui nella collettività?
Photo Credits: Immagine in evidenza e immagine a testo via Pixabay.
5 Comments
Rita, arrivo tardi a commentare questo tuo post, tardi perché avrei voluto farlo l’altra volta quando l’ho letto. Secondo me, non ti devi preoccupare ma non lo dico tanto per “fare l’amico”…Devi sapere che un episodio simile al tuo (ma declinato al maschile: niente bambole 🙂 ) è capitato anche a me. Da bambino, i miei genitori mi “beccarono” a casa a studiare alcune foglie che trovai per strada; tutto preso con una lente d’ingrandimento in una mano e una matita che le ricopiava su un taccuino nell’altra. Si arrabbiarono; per loro quel caldo pomeriggio d’estate forse andava speso diversamente. Non gli chiesi mai “Perché dovrei?” E sai perché? Perché ero contento così; non me ne preoccupavo. Oggi, che sono passati più vent’anni da quella volta (ok, trenta!) quella curiosità per la quale sceglievo di stare solo c’è ancora. E se questo vuol dire condividerla con pochissimi e improbabili amici invece di connettermi secondo le rigide regole social del web (genitori 2.0?) mi sta bene. Io dico che questo è contatto umano.
Buongiorno Nick, ho letto ieri il tuo commento e tuttora mi risulta consolatorio e piacevolmente argomentato. Quindi, oltre che di minerali ti intendi anche di piante? Ebbi anch’io l’idea di un erbario da piccola, ma alla fine ho raccolto francobolli per un certo periodo di tempo. Chissà che fine hanno fatto…
Siamo dei solitari profondamente umani. 😉
Ciao Rita,
Hai mai guardato da questo punto di vista, e cioè che un gruppo è forte se ogni suo membro esprime la sua individualità? Ti faccio un esempio… nell’esercito (credo il gruppo per antonomasia dove si tende a ridurre la propria individualità) tutto funziona grazie al fatto che ognuno ha una propria specializzazione… detto questo, per quanto mi riguarda spesso mi sono trovato ad essere accusato di andare solo a caccia di click pubblicando i miei post nei gruppi.
È normale, riteniamo che il fatto di essere nel 2015 tutti siano persone civili, evolute, capace di preoccuparsi dei sentimenti altrui… non è così.
Io continuo a pubblicare, interagendo con gli altri membri del gruppo, non esagero, e cerco di prendermi solo quel minimo spazio per condividere le mie idee…
Ciao Francesco, purtroppo non ho una grandissima conoscenza dell’ambito militare e, in questo contesto, il mio pensiero va al libro Da qui all’eternità di James Jones dove l’equilibrio che intendi funziona per mezzo dell’obbedienza e dell’onorare i propri compiti. La specializzazione, il fattore umano (almeno nel libro) non è proprio un esempio perfetto di gruppo. L’esercito è considerata una macchina i cui ingranaggi funzionano all’unisono ma dove la libertà di pensiero è relativa.
Ripeto, il contesto militare è una materia che non conosco.
Secondo me fai bene a pubblicare e condividere nei gruppi, forse a me riesce più difficile perché tendo a preoccuparmi troppo della reazione altrui prevaricandoli con il mio modo di vedere le cose e le persone. Probabilmente dovrei essere un pochino più audace e pormi meno problemi, come fai tu. 🙂
Mio padre è stato per 40 anni sottufficiale dell’esercito… diciamo che non è proprio come la raccontano i film e i libri… si è vero la disciplina è fondamentale perché in un contesto di azione militare tutti devono muoversi all’unisono, in fin dei conti stiamo parlando di mettere a repentaglio la propria vita… ma al di là di questo contesto estremamente unico l’individualità è ben lungi dall’essere ridotta… anzi… è giusto pensare alle sensibilità altrui, ma senza però limitarsi… nel senso agiamo pensando agli altri ma senza limitare noi stessi… a questo punto non sarebbe giusto nei nostri confronti… 🙂