Siamo arrivati al lunedì e al post conclusivo su Pordenone Legge 2015, manifestazione dedicata al libro, agli autori, ai lettori e a tutti quelli che amano confrontarsi, condividere, arricchirsi di nuove conoscenze.
Per tutta la scorsa settimana ti ho raccontato, incontro per incontro, cosa è stato per me partecipare, come spettatrice, a questo evento. Più volte ho citato un’amica che mi ha fatto da guida, Elena Bigoni. Oggi ho deciso di dare spazio alla sua voce e ai pensieri che le sono sorti spontanei mentre ascoltava la presentazione de I due hotel Francfort di David Leavitt.
Vieni?
I due hotel Francfort di David Leavitt: il pensiero di Elena Bigoni
Dovrei raccontare la presentazione del libro I due hotel Francfort di David Leavitt a cui ho assistito a #Pordenonelegge il 19 settembre.
Mi sono arrovellata parecchio sul modo di descrivere l’incontro, non avevo con me un registratorino, nessuna possibilità di trascrivere domande e risposte, come stenografa faccio schifo, quindi?
La capa nonché padrona del blog Rita che mi ha concesso questo spazio mi ha proposto di iniziare parlando del perché ci sono andata e cominciare da lì.
Il problema è che il motivo per cui ci sono stata è abbastanza “scemo” se così si può dire, dovevo avere un autografo di David Leavitt, niente di più niente di meno. Era per un’amica che ama questo autore ma che, per questione geografiche (è di Palermo) non poteva essere a Pordenone. Mi sono detta, perché non fare una cosa carina per lei (tra l’altro voi che seguite Paroleombra sapete già chi è visto che Rita ha recensito il suo libro, Florence… toh quanto piccolo è il mondo) 😛 ?
Così ho deciso di partecipare all’incontro, che poi Loredana Lipperini presentasse l’autore era un elemento bonus non da poco. Però, come fare a descrivere questa presentazione?
Arrivando digiuna dell’autore e non avendo letto il libro, cosa potrei raccontare senza scadere nel solito, banale, resoconto mezzo monco perché non mi ricordo esattamente le domande e le risposte fatte? Ebbene, visto che sono rimasta letteralmente affascinata non solo dall’autore, ma anche dalla descrizione che ne è stata fatta, racconterò, o meglio, cercherò di trasmettere i motivi per cui ho scelto di leggere I due Hotel Francfort.
L’autore statunitense mi ha conquistato dopo esattamente due minuti perché ha scelto di leggere lui stesso, in italiano, l incipit del libro dedicando la lettura a Delfina Vezzoli, sua storica traduttrice dai tempi di Ballo di Famiglia, suo libro d’esordio. Un uomo del genere non si può non amare sin da subito. Se poi scopri che Daisy, il cane di due dei protagonisti Edward e Iris, è in parte ispirato al suo cane Bartolomeo – sì il nome era in italiano, Leavitt ha vissuto per un lungo periodo a Roma – la frittata è fatta.
In più, le domande di Loredana Lipperini hanno permesso che l’intera forza del libro si aprisse a tutti noi ascoltatori presenti.
I due hotel Francfort parla di un periodo storico ben preciso, il 1940 e di un luogo altrettanto specifico, Lisbona. L’Europa è in guerra e gli stranieri, come gli americani, cercano di raggiungere le ambasciate prima e i porti “franchi” poi per poter salpare con le navi dirette verso gli Stati Uniti.
La Lipperini accosta subito le atmosfere di Lisbona del 1940 a quelle del film Casablanca. Ogni cosa sembra imperniata dal senso di attesa, il tempo scorre ma allo stesso tempo coloro che vivono in questa città sembrano rinchiusi in una specie di limbo che offre loro una strana sensazione di protezione.
I due Hotel Francfort sembra quindi un romanzo storico, elemento confermato anche dalla minuziosa ricerca portata avanti dall’autore il quale, dal 2009 in poi, non ha smesso di cercare, viaggiare a Lisbona, per cogliere tutte le sfumature di questa città. Attraverso le parole dell’autore scopriamo così cos’era la Lisbona di quegli anni che, all’epoca, stava ospitando l’ Expo e sottostava alla politica del dittatore Salazar. Elemento forse ancora più disturbante, perché attuale, era la politica degli Stati Uniti nei confronti dei suoi cittadini, desiderosi di rientrare in America per fuggire dalla guerra.
C’era, di fatto, una direttiva che obbligava le ambasciate a rallentare la concessione dei visti per gli imbarchi. Gli Stati uniti uscivano dalla crisi del ’29, era un paese allora ancora neutrale e sotto quella patina perbenista del
“noi siamo il paese delle libertà”
La xenofobia era imperante.
L’idea di accogliere tutti quei profughi faceva paura. Avrebbero tolto lavoro ai bravi lavoratori americani, avrebbero richiesto sostegno e assistenza, avrebbero distrutto il tessuto sociale americano. Gli Stati Uniti non potevano e non volevano permetterlo.
I due Hotel Francfort non è solo un romanzo storico anzi, scardina questa definizione perché diventa anche un racconto di personalità, di cambiamenti, di doppie identità e di ricerca. Elemento questo che si vive con forza nelle parole di Leavitt che, in più momenti, racconta la difficoltà e l’approfondita ricerca di un romanziere nel giocare, man mano che il libro prendeva forma, con gli stessi paradigmi della scrittura.
Durante la presentazione ha raccontato come molti elementi quasi non avessero senso mentre li scriveva e che il loro valore è diventato tale solo a pochi mesi del termine della stesura. Inizialmente, la storia doveva finire in un altro modo. La difficoltà di trovare la giusta voce narrante: a tempi alterni ha provato la terza persona, il punto di vista di ognuno dei protagonisti e persino del cane Daisy (testimone silenzioso dell’intera vicenda) fino a quando non ha capito che il protagonista dell’intera storia era Peter.
Ad essere sincero il romanziere stesso è rimasto colpito quando questo personaggio è diventato l’eroe della storia. Ed è in questo passaggio, forse più di altri, che è uscito l’elemento creativo, il lavoro che lo scrittore fa su sé stesso e sugli scritti ma anche come gli scritti stessi condizionino l’autore.
Sono rimasta particolarmente affascinata da come Leavitt raccontava che, per gran parte del tempo (l’autore ha impiegato diversi anni a scrivere questo romanzo) Peter si muovesse come una bambola, un fantoccio fra le sue mani, fino a quando d’un tratto è diventato, per Leavitt, un essere umano che gli raccontava come dovesse farlo muovere e quale storia dovesse narrare. Da qui, si sono poi innescati molti input diversi fra loro. Il ricordo di alcuni momenti vissuti a Lisbona, persone reali che l’autore aveva incontrato e che diventano parte della storia e la musica diventano la melodia di sottofondo dell’ intera opera.
L’autore ha raccontato di come, ogni cosa avesse avuto un senso quando ascoltò un’esecuzione di un pezzo di Brahms e si sia detto:
“Ecco cosa voglio per il mio libro.”
A questo punto immagino vi chiederete: ma di cosa parla di questo libro visto che non è propriamente un romanzo storico? Ebbene è la storia di due coppie: Peter e Julia, Edward e Iris.
Peter è un venditore di auto, apparentemente una persona anonima. Julia ha un animo d’artista ma questa inclinazione non è mai sfociata in nulla, lesta e nervosa, il suo desiderio di vivere in Europa e a Parigi in particolare nasce dalla necessità di sfuggire dal suo passato e da sé stessa.
Edward ha una mente geniale che lo rende sempre irrequieto e Iris, ricca di famiglia, per canalizzare questa irrequietezza ed evitare di essere abbandonata, lo spinge a scrivere assieme a lei dei romanzi gialli sotto pseudonimo.
Pseudonimo che si innescherà ad un certo punto della storia e con il quale Leavitt giocherà proprio per spezzare quelle che sono le regole fondamentali della scrittura.
Ognuno di questi personaggi nasconde qualcosa, non solo al mondo ma anche a se stesso.
Queste due coppie si incontrano casualmente e scoprono non solo di aspettare l’imbarco sulla stessa nave ma di vivere in due hotel differenti ma con lo stesso nome. Un incontro casuale che metterà tutti di fronte a quel lato di sé sempre tenuto nascosto perché, durante il corso della storia, emergerà un legame, l’innamoramento di Peter ed Edward.
In questo senso il romanzo scardina il concetto di romanzo storico e esprime la sua duplicità. O meglio una delle tante facce visto che i temi trattati sono molti e diversi e, un passo alla volta, vengono messe a nudo la forza, le fragilità e le paure dei protagonisti. È in questo contesto che Peter diventa, in ultima analisi, il protagonista del racconto ma anche l’emblema della visione che Leavitt ha delle cose.
Peter è il meno narcisista ed egocentrico dei quattro, quello con meno sovrastrutture da rompere e quello più propenso al cambiamento e all’accettazione di sé. Colui che riesce a smettere di mentire a se stesso e riscopre dei valori profondi. Quello che deve diventare l’eroe di un racconto drammatico, di uno spezzone sanguinoso della nostra storia passata.
Per Leavitt l’eroe è colui che sa proteggere coloro che ama a costo della sua stessa vita.
I due hotel Francfort è questo e molto altro ancora, a partire dalla scrittura (vi ho detto che ho cominciato a leggerlo :P)che snella, veloce, ironica, dai tratti decisi ti catapulta immediatamente nella narrazione. Una narrazione che mantiene sempre un ritmo piacevole, quasi inatteso e che con delicatezza ma forza e chiarezza riesce a mostrare al lettore i personaggi, i luoghi e le atmosfere.
Un libro che non ho ancora terminato ma che consiglio volentieri.
Annotazioni a margine. Quasi al termine dell’incontro sono state fatte all’autore due domande che mi hanno particolarmente colpito.
La prima rifletteva sul parallelismo tra la situazione vissuta dagli americani in fuga dalla guerra nel 1940 e ciò che sta succedendo ora in Europa con i rifugiati politici Siriani. Leavitt risponde parlando di due possibili scelte:
– Si può scegliere tra la paura, la stessa che ha caratterizzato gli Stati uniti nel 1940 portando ad un’irrazionale chiusura o decidere per l’accoglienza, ricordando che le radici dell’Europa sono giudaico-cristiane e, uno dei capisaldi della religione è proprio “L’amare il prossimo”- .
La seconda domanda, invece, è stata dedicata all’omosessualità. Nei libri di Leavitt sono sempre stati presenti dei personaggi omosessuali. La domanda posta da un ragazzo del pubblico è stata proprio su come, nel corso del tempo, a partire dall’uscita nell’ 84 di Ballo di Famiglia, è cambiato il suo modo di scrivere dell’omosessualità. Domanda estremamente interessante per Leavitt il quale ha raccontato come la scrittura e la visione dell’omosessualità sia cambiata molto dai suoi esordi ad oggi.
Negli Stati Uniti negli anni ‘80 l’unico legame affettivo possibile nella mentalità comune era quello fra uomo e donna, quindi ogni devianza, perché in tal modo era vissuta, necessitava di una spiegazione. Il concetto di coming out nasceva proprio da questo e gli scrittori che raccontavano di storie con personaggi omosessuali dovevano tenere conto proprio di questo elemento, bloccando in qualche modo la narrazione perché il personaggio omosessuale in qualche modo aveva bisogno di un contesto, di un racconto a parte, di una spiegazione della sua stessa esistenza. Ora questo, non avviene più perché la società è cambiata non solo grazie a internet ma soprattutto alla tv. Leavitt ha portato l’esempio di sit-com popolari come Will&Grace che andavano in onda più di una decina di anni fa dove i vari personaggi non hanno mai nascosto la loro omosessualità.
Le generazioni che sono cresciute con questo tipo di televisione non hanno bisogno che qualcuno spieghi loro che cosa sia un’omossessuale e perché lo sia lasciando lo scrittore libero di poter esplorare le storie da un altro punto di vista.
In questo contesto si è innescato il discorso sulla legalizzazione dei matrimoni omosessuali. Leavitt ammette fra il candido e l’imbarazzato un aneddoto. Due anni prima era stato intervistato da una giornalista italiana e, alla domanda sulla possibilità della legalizzazione dei matrimoni gay in Florida, l’autore aveva risposto con un secco no, secondo lui non c’erano i presupposti che ciò avvenisse eppure nel febbraio del 2015 è stato smentito e in tutti gli Stati Uniti ora c’è la parità di diritti. Ha poi concluso dicendo che forse anche per l’Italia tra due anni potrebbe avvenire, a sorpresa, una cosa simile. E io, francamente… ci spero :P.
Con quest’ultima domanda si è concluso l’incontro con David Leavitt e, se ve lo state chiedendo, sì sono riuscita a ottenere l’autografo per la mia amica…eccolo qui sotto.
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