Continuano le pausa racconto e, questa volta, lo spazio è tutto dedicato ad Antonella Albano alla quale devo:
- la lettura del suo romanzo Io, Liam,
- la revisione della fanfiction di Avenal Alec, Una vacanza dall’apocalisse,
- la stesura del suo personalissimo Curriculum Del Lettore e
- l’invio di ben tre racconti da farti leggere.
La mia ospite è andata oltre la disponibilità concessa per pura cortesia e, per questo gliene sono grata, come sono felice di farti leggere il primo della trilogia di racconti che vorrei condividere con te.
Si intitola Reietta e, più che una storia, è una sensazione.
Quello che viene messo in evidenza è ciò che la figura di una donna forte e di buon cuore messa sotto pressione, logorata, da una società che la disprezza e la svaluta in quanto donna e di come, nonostante ciò, affronta la paura e il desiderio di morire prendendo coscienza della fonte generatrice di vita che è il femminino.
Pausa racconto di Antonella Albano: Reietta
La strada è buia e io sono stanca. Cammino rasente il muro; i piedi stentano a sollevarsi da terra, ma devo proseguire. Devo almeno evitare di fare brutti incontri. Non devono vedere che giro a quest’ora di sera.
Lo sa Iddio se in questo maledetto villaggio hanno bisogno di inviti per buttarmi fuori. Respiro a fondo e attraverso una stradina illuminata dalla luna: se qualcuno mi vede, il sogno di un giaciglio dove riposare si allontanerà come un topo inseguito da un gatto. Lascio il muro ruvido e percorro lo spazio più chiaro. Il buio è mio amico, più di quanto non lo sia per nessun altro in questo sudicio posto. Ecco il confine estremo del villaggio, ma la radura dove potrei rannicchiarmi è ancora lontana.
Uno sguardo indietro, alle luci che dentro le case piano si spengono, mi ricorda quando anch’io facevo parte di quel panorama. Quanti secoli prima? Inutile anche solo pensarci: al peso delle gambe si aggiunge anche il sapore amaro del rimpianto.
E poi non avranno da me nemmeno questo: non sono io quella che ha sbagliato.
L’oscurità sotto i primi alberi mi salva dalla luce della luna, ma proprio quando penso di essere in salvo, mani ferree mi fermano il cuore.
«Donna!» la voce roca mi alita nell’orecchio e la rabbia rimpiazza la paura.
«Lasciami, figlio di una scrofa!». L’insulto intollerabile colpisce basso. Non mi sono ancora divincolata per fronteggiarlo che finisco a terra per un manrovescio.
«Pagherai tutto, un giorno» sibilo, mentre sento l’umido del sangue sul labbro rotto.
Silas troneggia su di me, immobile. Solo i pugni stretti rivelano la voglia di continuare a colpirmi. Sa che non ho paura di lui.
«Che fai di notte in giro? Vuoi che qualcuno finisca l’opera cominciata? Così che ti trovino sul greto del torrente, morta?»
«Vuoi essere tu a finirla, Silas? Dimmi» A fatica mi alzo e gli fisso il mento proteso nell’ira. Non gli arrivo che al petto.
«Lo sai che non mancherei di rispetto a Reuben. Nemmeno dopo morto». Gli rode pronunciare queste parole.
«Oh già, dimenticavo che eravate amici, vero?» il mio tono di scherno lo fa rabbrividire: non si sopporta questo da una donna. Non dalle mie parti.
Che sto facendo? Voglio morire. Sì, deve essere questo. Mi passo una mano sulla faccia, allentando un attimo il filo degli sguardi. Ma il sapore del sangue riaccende la rabbia.
«Forse te ne eri dimenticato quando mi hanno ridotto in fin di vita. O era Reuben che dal mondo dei morti ti sussurrava che era giusto quello che mi stavano facendo?»
Passa il tempo, ma il fuoco di quel tormento non si allenta: mi brucerà del tutto e di me rimarrà solo rabbia che si estinguerà nell’aria. Un capogiro mi fa quasi cadere. Respingo la sua mano che istintivamente fa per sorreggermi e finisco a terra di nuovo. Dimenticavo la stanchezza mortale. Potesse la terra inghiottirmi! Mi tiro su, più per orgoglio che per altro.
«Vieni dalla locanda, vero?» lo sguardo sospettoso mi segue. Non crollerò ancora davanti a lui, dovesse costarmi la vita.
«La vedova del tuo amico non è affare che ti riguardi Silas».
«Dicono che ti vendi agli stranieri». Sopporta il gelo dei miei occhi, con qualche difficoltà.
«Ma non può essere vero, perché ti avrebbero già lapidata. L’avrebbero fatto per molto meno. Gli anziani devono essersi informati».
Ne ho abbastanza. Devo tornare al giaciglio, subito. Devo riposare.
«Ti fanno pulire tutta la cucina in cambio degli avanzi, giusto?»
Sono già a vari passi e non mi curo di rispondere: gli basteranno le mie spalle che lottano per avanzare fra i tronchi degli alberi.
«E pensare che ti sarebbe bastato così poco…». La considerazione mi colpisce come un pugno. Un altro. «Vai a casa tua, Silas. Il tuo bel letto ti aspetta. Perché perdi tempo con me?» l’ultima frase la sussurro al tronco a cui mi appoggio. Se cadessi ora, mi addormenterei per terra.
«Donna, ho un affare da proporti». Mi ha raggiunto, il bastardo.
«Vattene!» ringhio stancamente. «Se accettassi di fare affari con qualcuno, a quest’ora avrei già un tetto sulla testa».
Mi cammina accanto. Assurdo. Deve avere davvero bisogno di qualcosa.
«Il denaro ti farebbe comodo». È chiaro che non gli è naturale trattare con una donna. Certo: alle donne si comanda e basta. Devo tenere gli occhi aperti, mettere un passo davanti all’altro…
«Lasciami sola, Silas. Sono stanca. Se hai tenuto all’amicizia di Reuben, un tempo, ora vai via». Perché gli ho detto che sono stanca? È stata una debolezza, ora si sentirà in vantaggio.
«Ester…». Pare gli manchino le parole. Da quanto tempo non sentivo il suono del mio nome?
«Io so perché sei andata contro il volere degli anziani. Ho per te il rispetto che devo al mio amico di un tempo. Voglio proporti qualcosa che andrà a tuo vantaggio, ascoltami almeno. Se non vorrai, capirò». Queste parole non le afferro. Nessuno mi parla più in questo modo, deve esserci qualcosa sotto. E ho tanto bisogno di dormire. Non ce la faccio più.
Il tempo si ferma mentre stiamo qui, in mezzo al sentiero, l’uno di fronte all’altra.
Poi, un fruscio. L’istinto di ripararmi dietro gli alberi combatte con le mie membra, pesanti come marmo.
Ed ora l’altro uomo è qui, e io lo so che per me è finita. Finisce male. Maledettamente male, perché io sono maledetta, da Dio e dagli uomini. Chiudo gli occhi e aspetto.
«Silas! Di notte in giro con la vedova ribelle! Che incontro interessante». Le vesti non nascondono la pinguedine. «Gli anziani ne saranno estasiati» I suoi occhi addosso sono come una staffilata.
«Gionata». Il tono di Silas è difficile da interpretare.
«Capisco che la solitudine ti debba pesare, ma con questa reietta… Il suo destino è certo. Lo è sempre stato, è solo questione di tempo. Ma tu, tu mi deludi». Mi giro, ma rimango lì. È inutile fuggire.
«Tu, piuttosto». Il tono di Silas mi fa riaprire gli occhi. Contemplo le ombre in cui avrei dovuto rifugiarmi. «Non credo che questo girovagare a quest’ora giovi alla tua reputazione. … Ed è inutile che rilanci sulla mia: ovviamente non c’è paragone». La frecciata ottiene l’effetto voluto, ma il gioco non termina: troppo facile. Gionata è un manipolatore più abile di quanto Silas non sarà mai.
«Caro Silas» l’uomo corpulento si avvicina col suo passo danzato «Sono sicuro che un accordo sia possibile fra noi, uomini d’onore». Non mi degna di uno sguardo. Io sono solo l’oggetto sul banco del mercato. «Se lei farà la fine che merita, la giustizia ci guadagnerà, la pudicizia sarà lodata e l’onta scomparirà dal nostro villaggio. Saremo noi i giudici severi, finalmente, ma nulla impedisce che ci si possa togliere qualche voglia, prima. Sarà un segreto fra noi, Silas. Che ne pensi?»
Non gli importa nemmeno che io sia qui ad ascoltare i suoi piani laidi. Io «non ci sono». Se solo potessi essere inghiottita dalla terra, qui, ora. Dio, te ne sarei talmente grata. Ma non l’hai fatto allora, quindi so che non lo farai adesso.
Silas rimane immobile. Gionata fa un altro passo: «Allora? Un patto fra me e te?» tende la mano verso di me, ma non distoglie lo sguardo da Silas, non osa interrompere il contatto.
«Parlando di segreti, Gionata, lasciami riflettere sugli affari che ti spingono nella casa di Ebenezer, quando lui è in viaggio». La mano si solleva a grattarsi il mento, mentre lo sguardo sorveglia la reazione alle sue parole. Gli occhi tondi dell’altro uomo si stringono, ma l’espressione melliflua rimane immutata: sostiene ancora il suo gioco.
«Però ti prometto che penserò alla tua offerta, è una possibilità da valutare». Lo sguardo di Silas si sposta su di me, come se riflettesse sui pro e sui contro. Qualcosa mi dice che non fa sul serio. «Allora, Silas, ti saluto» fa per girarsi e poi ancora quegli occhi su di me: «Ma, non è che vuoi goderti l’occasione da solo?» Vuole essere sicuro di non lasciarmi qui con lui: non sarò mai libera. Nemmeno di morire in pace.
«Gionata, torniamo al sicuro nelle nostre case. Nulla che valga la pena ci trattiene qui». Col braccio gli fa cenno di precederlo, con lo sguardo, di sbieco, mi impone di attenderlo.
Come è liberante il giudizio di Silas. Forse intendeva altro con le sue parole, ma questo è quel che ha detto.
È vero: ‘nulla che valga la pena’ per nessuno. Io mi siedo qui, vicino a quest’albero. Forse mi sarà concesso di unirmi alle foglie che marciscono dolcemente, senza pena. Qui, in questo angolo di mondo al confine con l’Egitto …
«Ester» la voce mi raggiunge nel sogno. Lo so che è un sogno, perché Reuben mi sta guardando mentre preparo da mangiare e sorride. Lo so che è un sogno. Le lacrime mi bagnano la faccia.
«Ester» apro gli occhi e Silas è inginocchiato a un metro da me e mi guarda. Mi raddrizzo e mi sistemo il velo. Mi alzo e non lo guardo, per la vergogna: addormentarsi così, sul sentiero! Le foglie che marciscono per terra hanno una dignità che a me è negata, io, che non sono niente.
«Che cosa vuoi da me, Silas?» è tornato, posso servirgli a qualcosa. Se non è contro il decoro, perché no? Un favore a qualcuno che ha pronunciato il mio nome.
«Arriverà un mio conoscente. È in pericolo e ha bisogno di aiuto».
«Da me?» forse ho sbagliato a fidarmi.
«Ha con sé la moglie e un figlio piccolo. Sono costretti a fuggire. Non c’è bisogno che tu sappia altro». Mi fissa. L’aggrottarsi delle mie ciglia gli fa distogliere lo sguardo.
«Allora? Accetti?» si guarda intorno.
«Accetto. Anche se non so di che utilità posso essere». Persone che non sapranno chi sono. Come se fossi una persona normale. Come se non avessi rifiutato di sposare Gionata, il fratello di mio marito, dopo la sua morte, e non avessi dovuto sopportare la lapidazione, per questo.
«Vieni allora». Mi precede. Non devo pensare alla faccia di Reuben, mentre mi guardava. Devo mettere i passi dietro a quelli di Silas, come se uno scopo ci fosse. Anche uno piccolo.
Dietro i cespugli alti c’è la roccia; l’altopiano spunta dalla pianura come un enorme formicaio che Dio potrebbe schiacciare, se volesse. Ma non vuole, lascia fare, lui, per le sue misteriose ragioni. Nascosta dietro le fronde sparute c’è una rientranza poco profonda, dove ci si può nascondere. Guardo Silas con un po’ di stupore per questa sua attività secondaria, strana per un falegname. Siamo appena arrivati quando sentiamo un fruscio.
C’è un uomo. Quando riconosce Silas, sorride e si fa avanti, tirandosi dietro un asino.
«Josef! Amico! Sei giunto da molto?» Si abbracciano. Nello sguardo dell’uomo c’è preoccupazione, ma anche letizia. Poi si gira e: «Maryam, vieni!».
Sbuca una donna, avvolta in un manto da viaggio. È giovanissima, il viso velato di stanchezza rivela una bellezza timida. Tiene lo sguardo basso e la schiena un po’ curva. Quando giunge vicino a noi, un movimento vicino al suo seno mostra che le sue braccia sono piene. Io non posso non fissare quel movimento. Io, che sono secca come una pianta morta. Io, che sono una vedova senza figli: il rifiuto d’Israele.
Quando mi arriva davanti, non c’è altro se non lei: una donna con il suo bambino. Deve vedere qualcosa sul mio viso, perché i suoi occhi si fissano nei miei: sono azzurri. Se non fosse stata calamitata dal mio dolore, non l’avrei notato.
«Josef, questa è Ester. Può stare con la tua sposa, mentre noi andiamo a cercare quello che ti serve per il viaggio».
La voce di Josef è grata quando risponde «Iddio vi renderà merito per la vostra gentilezza. Silas e tu, Ester, siate benedetti!» Rimane un attimo a guardarmi. Forse è stupore, forse è pietà. Il mio viso parla, contro la mia volontà. Silas interrompe la mia confusione, toccandomi leggermente. Il mio brivido è così repentino che sobbalziamo entrambi. «Ester, ti prego, rimani con Maryam nella grotta. Io e Josef torneremo il prima possibile».
Mi scuoto e precedo la donna verso l’anfratto, l’uomo la saluta sfiorandole la spalla e sussurrandole parole che non sento. Silas e Josef si incamminano con l’asino, parlando a bassa voce, mentre l’alba comincia a rischiarare l’orizzonte.
Nella grotta ci sediamo. Maryam rimane con lo sguardo basso. A un tratto una manina appare da sotto il manto e il ciangottio di un bambino di pochi mesi riempie la cavità semibuia. Lei mi guarda e sorride leggermente, come a scusarsi. Poi traffica sotto il manto e l’alba sembra riverberarsi sul suo viso: sta allattando. Io rimango immobile, mentre ancora le lacrime scendono, come un torrente lento. In petto mi fiorisce un dolore; nasce da dentro le viscere e mi brucia tutta. Sono viva. Dovrei maledire, ma non ci riesco.
Non è invidia la mia e non so perché. Non posso invidiare questa bambina dagli occhi azzurri, con le occhiaie e la pelle pallida per la stanchezza. È in fuga. Non si fugge con un bambino, se il pericolo non è grande. La foglia morta non invidia il giovane albero: l’una è parte dell’altro. Lei è me. Chiudo gli occhi. Bruciano, come tutto il resto, hanno la loro parte di dolore.
Un vagito mi sveglia: il fagotto davanti al viso di Maryam agita le braccine. Mi vergogno di essermi addormentata, in fondo sono lì per loro… Una luce la illumina mentre guarda il piccolo. Si accorge che mi sono svegliata e, con l’espressione, quasi si scusa.
«Ti chiedo perdono…» mormoro «non ti sono di grande utilità».
«Dovevi essere stanca, Ester. Non preoccuparti di noi, stiamo bene». È miele la sua voce.
«Come posso aiutarti?» voglio fare quello che mi è stato chiesto, anche se mi sento così inutile.
La dolcezza di quegli occhi mi attraversa e il dolore si risveglia.
«Sono così stanca… potresti forse tenere il piccolo? Ha mangiato e certo dormirà. Io devo riprendermi un po’, per viaggiare sull’asino. È un grande aiuto non dover andare a piedi, ma la schiena ne soffre sempre un poco».
Ha l’aria di aver fatto un discorso lunghissimo, come se non ci fosse abituata. Quel che dice è … inconcepibile. Vuole che tenga il suo bambino. Io. Me lo porge. Devo aprire le braccia, non posso tenerle chiuse, non posso dire: non sono degna. Lei ha bisogno di me. Così lo prendo: ecco vedo il suo viso. Avrà forse sei mesi; si siede sulle mie ginocchia e, un po’ perplesso, mi guarda. Gli occhi della mamma. I capelli chiari del padre.
Io, la sterile, io, la maledetta, io, la ribelle. Agita le manine, mi sorride. Io non ricordo nemmeno come si fa. Eppure devo rispondergli. Si sporge verso il mio arrugginito tentativo di sorriso, verso i miei occhi lacrimosi e mi prende il viso fra le mani. Griderei dal dolore e dalla gioia. Guardo Maryam, ma lei dorme tranquilla, come fosse in braccio agli angeli e non in una grotta straniera. Quale persecuzione l’ha spinta fin qui? Quale destino li aspetta? o aspetta me? Accomodo il bambino fra le braccia e lui sembra felice. All’improvviso penso che si potrebbe ancora, sì, che io potrei essere felice, come lui, qui, fra le mie braccia. È senza difese, senza paura, senza rabbia e mi guarda, serio. Di nuovo alza la manina e mi tocca il viso. Non si può abbandonare il suo sguardo. Eppure, non ho paura di quando se ne andranno, lui, con la sua mamma e il suo papà.
Sono una foglia della sua pianta, non sono ancora inaridita: il dolore me lo dice. Me lo dice l’amore. Posso vivere ancora, e lo farò.
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