È il primo mercoledì di settembre ed è diventata ormai prassi comune ospitare un Curriculum del lettore.
Questo è il giorno di Alessia Savi la quale, per certi versi mi ricorda Karen Blixen, autrice dello splendido romanzo che è La mia Africa.
Che cosa si prova a leggere la mia Africa di Karen Blixen
«In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong».
Non si fa in tempo ad arrivare alle prime dieci pagine de La mia Africa che subito ci si sente colti da un sentimento struggente, intenso, dal quale senti il bisogno di staccarti, per respirare, per non farsi travolgere. La prima frase del romanzo dischiude a beneficio del lettore le porte di un mondo meraviglioso, antico, nobile e ricco di vita e di magia. Una magia fatta di luoghi e di persone che vivono nel presente, consapevoli che nulla di ciò che ci viene dato ci appartiene. Una magia che narra tutte le declinazioni dell’amore. L’amore di una donna straniera per una terra completamente opposta alla sua terra d’origine. L’amore è pazienza e comprensione e attenzione ed è su queste basi che Karen Blixen narra del suo percorso umano e spirituale intrapreso in Africa, sua terra d’adozione. Un’immensa, magica, storia d’amore che però non ci appartiene ma che si presta ad essere letta, sentita, condivisa. Quando si giunge alla fine del romanzo il senso di perdita è inevitabile. La dicotomia tra ciò che se ne è andato e tra ciò che è stato vissuto ma che rimane nei ricordi diventa una cosa sola, inscindibile.
Per nascita si dovrebbe amare il luogo dal quale si proviene, ma Karen Blixen imparò ad amare con tutta sé stessa, e ad esserne ricambiata, il luogo in cui ha scelto di stare finché ha potuto. Lei scelse l’Africa e l’Africa scelse lei. E lì il suo cuore è rimasto, malgrado i cambiamenti e le perdite che si delineano lungo il romanzo.
Nell’ultimo Summer BookMusicTag al quale ho partecipato, avevo segnalato anche la visione della trasposizione cinematografica de La mia Africa. Diretto, nel 1986, dal regista Sydney Pollack e interpretata da un fantastico Robert Redford mentre i panni della baronessa sono stati rivestiti da Maryl Streep, il film ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti ma, prima di goderselo, è meglio leggere accuratamente il libro. La versione di Pollack si concentra di più sul rapporto amoroso che si instaura tra la protagonista e Denys Finch-Hatton ma, in verità, viene narrato molto, molto di più. Soprattutto per quanto riguarda i legami e i rapporti che Karen instaura con l’ambiente e gli abitanti autoctoni che, nel lungometraggio, appaiono marginali.
Comunque il viso di Maryl Streep è pura poesia.
Curriculum Del Lettore di Alessia Savi: le letture dell’autrice di Verso le luci del Nord
Ci si incanta a leggere La mia Africa.
A parte la frase d’apertura, i periodi di Karen Blixen sono lunghi, articolati e complessi ma, allo stesso tempo, chiari, semplici e cristallini.
Le terre africane si rispecchiano in una scrittura caratterizzata da un equilibrio perfetto eppure fragile, costretto al cambiamento ma stabile nell’attimo che scorre.
Sensibilità narrative e sfumature stilistiche che rendono la baronessa un punto di riferimento e una meta inarrivabile per gli aspiranti scrittori ma che però mi è parso di percepire in Alessia Savi, autrice di Verso le luci del Nord, e nel suo Curriculum del lettore del quale ne riporto la prima parte.
Siamo quello che leggiamo
A passeggio tra i bistrot di Parigi con Holden Caulfield e un gatto di nome Gobbolino.
A un lettore non si dovrebbe mai chiedere quali siano i libri che ha amato.
È la classica domanda che porta al monologo, in cui l’interlocutore si maledice per la propria ingenuità. Solo se dall’altra parte c’è qualcuno che ha tentato di instaurare una conversazione superficiale, certo che chiedere di un libro sia come domandare quale sia il tuo gusto di gelato preferito.
Da Rita questo non succede: la domanda nasce spontanea, interessata. Per un pubblico attento, che ama i libri e la lettura. Da chi è innamorato delle parole e stringe tra le mani piccoli tesori, non pezzi di carta.
Mi ha chiesto di raccontare la mia storia di lettrice, dall’infanzia al divenire di una vita che si trasforma. Come lettori abbiamo un debito nei confronti dei romanzi che amiamo: quello di non dimenticarli mai. Un ringraziamento muto fatto di lacrime, sorrisi e invettive.
Quello che dovremmo capire è che noi siamo la storia, non solo quel personaggio.
La prima cosa che lessi non fu un libro, ma una serie di favole con audiocassetta. Mio padre me le portava a casa ogni venerdì, da quando ero abbastanza grande per ricordarlo e ancora non avevo iniziato ad andare a scuola per imparare a fare i conti con le vocali e le consonanti. C’era una volta, s’intitolava, e le fiabe c’erano proprio tutte, anche quelle che nessuno conosce. Come Gobbolino, il gatto del cavaliere. Una storia triste, di uno spelacchiato gatto nero che aiuta un Principe a salvare la propria bella. Abbandonato, fugge in cerca di un altro cavaliere da aiutare.
Quando iniziai a leggere ripresi in mano quelle riviste illustrate e lessi le favole che, negli anni, avevo solo potuto ascoltare. Mio padre continuava a regalarmi uscite settimanali e passai alle favole di Andersen, in una raccolta illustrata ad acquerello.
Venne il tempo dei miti. Sette anni, Saint Seiya passato alla tv su un’emittente secondaria e io e mio padre a guardare con avidità i Santi di Athena attraversare le Dodici Case per salvare la propria dea. Sulle mie mensole comparivano intanto libri illustrati di miti e leggende. Mitologia greca e nordica, il ciclo bretone, le fiabe celtiche. Lessi Le mille e una notte, storie di un Medio Oriente affascinante, di Alì Babà e di palazzi incastonati di gemme preziose. La mia infanzia è costellata di favole e leggende, di libri illustrati e voci suadenti che leggevano per me quand’ero troppo piccola per farlo.
In quarta elementare lessi Le mie prigioni di Silvio Pellico. Ricordo ancora la scena della gamba amputata di Maroncelli: credo non la dimenticherò mai. Così, decisi di tornare alle storie di fantasia.
Anziché passare le mie giornate a smaltarmi le unghie e imparare come truccarmi, fagocitavo libri presi in prestito dalla biblioteca e dalla mia amica Chiara. Finito il giro di educazione letteraria di mio padre, tentò di prendere il suo posto mia madre con il suo amore per Ken Follett e l’odio atavico per gialli e horror.
Per paradosso, iniziai a leggere i Gialli Junior e i Gaia Junior, le due collane di Mondadori per ragazzi. Ne lessi così tanti che dire quali furono i migliori è difficile. Dire che in quella collana ci fossero solo gialli è un’enorme bugia. C’erano horror e paranormal. Nei Gaia ci finirono romance, romanzi storici, urban fantasy. Come Un rubino nel fumo, di Philip Pullmann, che resta la sua opera migliore, nonostante abbia raggiunto la notorietà con la saga de La bussola d’oro. Una Sandy Lockart che ricordo ancora come una delle mie eroine preferite, con molto affetto. Una storia ambientata nella Londra di fine Ottocento, tra fumerie d’oppio, la Compagnia delle Indie Orientali e un rubino di inestimabile valore che tutti vogliono.
Mi innamorai in particolare di due romanzi: La figlia della luna, di Margaret Mahy, un paranormal romance caratterizzato da un personaggio femminile forte, Laura, con un potere insignificante che deve essere sviluppato per salvare il fratellino, e un co-protagonista che ha fatto innamorare parecchie lettrici. Sottoscritta compresa. L’altro fu L’estate del soldato tedesco di Bette Greene. Furono gli anni di Bianca Piztorno e del suo Speciale Violante, di Sandra Scopettone con Il gioco dell’Assassino e Patricia McKillip, che incontrerò di nuovo parecchi anni dopo.
Ma se davvero ami qualcuno, torna sempre da te. Forse in un’altra forma, ma torna sempre. Il tuo amore lo riporta indietro.
Le basi del mio futuro le gettai in tre anni di letture notturne, avida di storie e nuovi personaggi. Amavo le ragazze forti, intraprendenti. Quelle che finivano per cavarsela sempre, in qualche modo. Non erano perfette, ma ce la facevano. Io, per contro, restavo sempre un’imbranata cronica. Mi davano la possibilità di credere che, in qualche modo, avrei superato tutto quel casino chiamato adolescenza anche io. Mi piacevano le storie del mistero, in cui c’era un grande caso da risolvere. Amavo le storie in cui il finale non era mai scontato, in cui quelli come Patty e Anton (i protagonisti de L’estate del soldato tedesco) dovevano separarsi. Perché gli amori infelici, d’altra parte, non finiscono mai.
5 Comments