pausa racconto Scrittura creativa

Pausa racconto: Ping Pong?

30 Giugno 2015
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Eccomi qua, è l’ultimo martedì del mese e ho pronta per te una storia che scrissi nell’estate del 2014.

Si intitola Ping Pong? Ho lasciato il punto di domanda perché questo racconto nasce da un esercizio di scrittura creativa dove si chiedeva all’aspirante scrittore di costruire una trama utilizzando i cinque sensi e una pallina da ping pong. Non avevo idee, buttai giù comunque una bozza e poi ne venne fuori questo.

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Ping Pong?

Non aveva scelto lei quella camera. Le piaceva la sua casetta di campagna dove, con il marito, si era trasferita in cerca di un luogo dove far crescere i figli. Non senza sacrifici.

Per raggiungere il posto di lavoro, le scuole e le attività che impegnavano le giornate invernali di tutta la famiglia era necessario alzarsi presto e percorrere numerosi chilometri per raggiungere il centro urbano più vicino. Spostarsi in continuazione era stressante, la frenesia della vita cittadina, in questo, non li aveva abbandonati. Ma quando le scuole finivano era bello sentire l’odore della terra che si risvegliava alla vita e tutto rallentava, si amplificava. Si riscopriva il senso del tempo.

Ciclico, lento e veloce, inesorabile e perfetto. Era bella la sua casetta di campagna, sicura, confortevole. Lì Elsa aveva infuso il suo talento di arredatrice valorizzando, con gli oggetti, il senso di pace che emanava la vita bucolica. Lì, in quella loro casetta, il marito aveva dato sfogo alle sue abilità manuali, castrate da un lavoro monotono, sedentario ma remunerativo. In quella casetta si era saldato il loro amore, erano cresciuti i figli.

Era in quella casetta che Elsa avrebbe voluto stare, perché era lì che il marito l’aveva lasciata. In quella casetta lui, prima o poi, sarebbe tornato. Lei non si sentiva sola, semplicemente attendeva. Ma i figli, ritornati alla città, questo non lo capivano. Vedevano la madre logorata dagli anni e confondevano il suo sguardo sognante e malinconico con i primi sintomi della demenza senile. Lavoravano e vivevano in città e, pian piano, la vita quotidiana aveva eliminato in loro il ricordo del ciliegio del cortile. Quello che scuotevano in primavera per guardare i petali staccarsi e planare, portati a terra dalla brezza serale, sui loro visi.

L’albero sul quale si arrampicavano appena tornavano da scuola per cogliere le prime ciliegie, mangiarle e, ancora appesi ai suoi rami, sputare i noccioli il più vicino possibile agli zaini lanciati sotto il portico d’ingresso. Zaini che la madre riportava in casa, vicino al tavolo della cucina. Pronti per essere aperti al momento dei compiti. I figli di Elsa, due giovani curati e addomesticati dalle professioni svolte, avevano dimenticato la loro spensieratezza e come i genitori, dalla veranda, li osservavano giocare nelle sere d’estate.

Da bambini, quando la madre preparava una torta, la osservavano incantati mentre mescolava gli ingredienti e ridevano quando, avvicinando le mani infarinate sulla fronte, si spolverava di bianco i capelli che le ricadevano in avanti. Ora, da adulti, non ridevano più osservando la chioma ingrigita dal tempo, temevano le scale che lei usava per raggiungere il piano superiore. Se le fosse accaduto qualcosa, la strada che li separava non avrebbe permesso loro di arrivare in tempo a soccorrerla. Li angosciava la tristezza dei suoi occhi quando osservava la foto del marito e padre scomparso. Quell’aura di solitudine li spaventava, non potevano lasciarla in quella casetta di campagna e la convinsero a tornare in città, in un ospizio. Il personale medico si sarebbe preso cura di lei e loro avrebbero goduto della sua compagnia tutti i giorni, mantenendo intatti i loro spazi privati. Un senso di colpa in meno.

Elsa, seduta sulla poltroncina in vimini, una delle poche cose, assieme agli abiti, che era riuscita ad adattare alla bianca e asettica stanzetta della casa di cura, non si rammaricava di questo loro comportamento. Comprendeva i loro pensieri, ma per qualche strano motivo qualcosa nella loro educazione sembrava fosse andato storto. Spesso trascorreva le notti seduta su quella seggiola e pensiero dopo pensiero, come il religioso snocciola i grani del rosario, ripassava ogni giorno passato con i figli. Li aveva portati via dall’urbanità perché ritornassero alla campagna, all’origine, alle pause e ai cicli della natura. Pensava che questo li avrebbe preparati ad una vita autentica, piena. Eppure la città se li era ripresi e li aveva inglobati nelle sue frenetiche attività.

C’era qualcosa che non le tornava, ma a pensarci tanto non risolveva nulla e quindi, dato che era ancora fisicamente autosufficiente per uscire da sola, si preparava con cura e passeggiava nei giardini pubblici, come da giovane seguiva le strade di campagna e si immergeva nel loro silenzio. Guardò il parco dalla finestra della camera. La giornata volgeva al termine ma, l’abbraccio soffocante dell’afa estiva manteneva un vigore tale da indurre i ragazzi a giocare i ragazzi a petto nudo mentre le ragazze, in canotta e short, indugiavano sotto il rinfrescante riparo delle fronde degli alberi.

Si alzò dalla seggiola, attraversò la stanza e raggiunse lo specchio. Si aggiustò il cappellino, ricacciò indietro un ciuffo di capelli grigi e controllò che la sua spilla preferita, ricordo del defunto marito, morto in un incidente stradale, fosse ben appuntata sulla giacchetta grigio perla regalatagli da una delle dipendenti dell’ospizio. Appurato il decoro del suo abbigliamento, varcò la porta della camera e salutò Enore, il suo vicino di stanza e amico. Percorse il corridoio puntellato di porte, alcune aperte altre chiuse. Tutte, però, si aprivano al mondo senile, senza possibilità di ritorno. Raggiunse l’atrio dell’ospizio e si avvicinò alla portinaia, una quarantenne dall’aria sciatta, pur indossando un’uniforme da ospedale perfettamente stirata.

«Buongiorno signora Livia. Faccio la mia solita passeggiata nel parco accanto. Rientro per ora di cena». comunicò Elsa sorridendo abitualmente.

Livia la osservò distrattamente, entrò nella portineria. Un gabbiotto a vetri che occupava un lato dell’atrio e dalla quale si poteva controllare agevolmente non solo chi entrava e chi usciva, ma anche i corridoi che conducevano alle stanze dei degenti. La portinaia aprì il registro e segnò, sulla scheda dedicata a Elsa, l’orario di uscita e di rientro dichiarati.

«Come sempre, se ha un malore improvviso, schiacci il pulsante del telecomando».

raccomandò Livia dopo averle consegnato un oggettino in plastica grigia da appendere al collo come un ciondolo. Elsa non capiva come funzionasse quella cosa. Sapeva che bastava premere l’unico bottone rosso al centro e subito i dipendenti della casa di riposo l’avrebbero localizzata e soccorsa. Era il suo lasciapassare, il suo salvavita. Se lo mise al collo e lo nascose accuratamente sotto la camicetta. Certo era pratico ma esteticamente brutto.

Salutò la portinaia e uscì, percorse il marciapiede in porfido lasciandosi l’edificio alle spalle fino a raggiungere, un centinaio di metri dopo un ampio piazzale. Lì stavano parcheggiate auto e motorini e quasi nascondevano l’ingresso al parco, poco più largo di una porta da appartamento. Da lì si accedeva all’area verde, uno spazio aperto che le permetteva di vedere, al di là della rete di recinzione, il cortile e parte dell’ospizio.

Riusciva ad individuarla addirittura la finestra della sua stanza. Una stradina asfaltata di rosso, percorreva e divideva in sezioni quella che sarebbe potuta apparire come una grande distesa di erba, sezioni che in alcuni punti si intersecavano e dalle quali erano stati piantati uno o due alberi per creare delle zone d’ombra sulle panchine saldate al terreno. Dai settori di solo prato risaliva il profumo dell’erba appena recisa. Dalle aree ludiche risuonavano, alcune distanti altre più vicine, le grida concitate dei ragazzini sul campo di pallacanestro, lo scalpiccio e gli improvvisi arresti di chi giocava sul campo da tennis e il tonfo di chi, a piedi uniti, saltava dall’altalena. Solo un’area raccoglieva un gruppetto di alberi che, disposti a cerchio, aveva creato una piccola radura, fresca e protetta. Uno spazio chiuso in un luogo progettato per apparire aperto e arioso.

Era quella piccola oasi, raccolta e profumata, che Elsa preferiva. Lì si immergeva nei suoi pensieri mentre il suo corpo si immergeva nella natura. Era là che Elsa si avviava quando, ormai vicina, percepì, tra gli alberi, un suono forte e secco. Una specie di schiocco che scoppiava da un punto all’altro. A volte costante, a volte interrotto, come una comunicazione dove domande e risposte si intervallano, nel silenzio dell’ascolto. A Elsa quel suono pareva familiare ma non riusciva a capire da dove provenisse. Forse il suo udito era stato confuso dai rumori, attutiti, delle attività che si svolgevano alle sue spalle. Non si fermò a pensarci su e si addentrò nel boschetto. Era quasi giunta all’imboccatura della radura che qualcosa le colpì il collo del piede. Abbassò lo sguardo e vide, tra l’erba, una pallina bianca, di quelle che si usano per il gioco del ping pong. Si abbassò lentamente e la raccolse con le mani tremanti. Era dura e un po’ ruvida, come se la ricordava. Inconsciamente la portò al naso e alla bocca, profumava di gomma nuova e sapeva di plastica.

«Scusi signora, non volevamo colpirla… Mio fratello Mattia ha sbagliato il tiro…» disse una voce timida.

Elsa alzò lo sguardo e si trovò davanti un ragazzetto biondo, sui dodici anni, col viso cosparso di lentiggini. Dietro di lui un altro bambino, di qualche anno più piccolo, ma dai tratti simili al primo, si nascondeva dietro il tronco di un albero. Entrambi avevano un’espressione preoccupata. Temevano di essere rimproverati per averla inavvertitamente colpita, che la pallina venisse sequestrata e che venissero esiliati dalla radura da poco scoperta.

«Non vi preoccupate ragazzi. Non mi avete fatto alcun male, ma come avete scoperto questa radura?»

«Ieri eravamo nel campo da basket, aspettavamo il nostro turno per giocare ma uno dei giocatori più grandi ha fatto un lancio lunghissimo e la palla è rotolata fino a questo gruppo di alberi» spiegò il più grande.

«Sì» confermò il più piccolo, affiancandosi al fratello. «I grandi non avevano voglia di recuperarsi la palla e hanno mandato noi. Perché eravamo i più piccoli del gruppo».

«Mi sa che preferivano stare con le ragazze più che giocare» aggiunse il grande, rivolgendosi più al fratello che a Elsa.

Il piccolo fece una smorfia di disgusto facendo sorridere Elsa che guardò la pallina e chiese:

«State giocando a ping pong? Da ragazza mi piaceva molto questo gioco!».

«Sì» risposero in coro.

«Ce l’ha insegnato la nonna e ci piace molto anche se è una cosa da vecchi… senza offesa!» spiegò il grande.

«Abbiamo portato il tavolino e le racchette in questa radura di nascosto, così i grandi non ci prendono in giro!» precisò il più piccolo.

«Nessuna offesa. Come vi chiamate?»

«Io sono Mirco!» disse il più grande, indicandosi con tutte due le mani aperte sul petto.

«Mattia!» esclamò il piccolo tenendosi le mani dietro la schiena, come un piccolo soldatino.

«Curioso» pensò Elsa «si chiamano proprio come i miei nipoti. D’altronde, Mirco e Mattia sono nomi molto comuni…» E, restituendo loro la pallina, chiese: «Mi fate vedere il vostro personale campo sportivo? Se non vi dispiace mi fermerei a guardarvi un po’…».

I bambini acconsentirono di buon grado, quella vecchina assomigliava alla loro nonna materna. Che spasso la nonna; quando erano più piccoli preparava dei dolci favolosi e raccontava loro storie bellissime di quando era giovane. Lei sembrava non avesse mai dimenticato cosa volesse dire essere bambini e quando venne a mancare, per un po’, sembrava che il mondo si fosse spento. Sapevano che ormai era in cielo e prima di andare a dormire la salutavano con il pensiero, dopo averle raccontato come avevano passato la giornata. Ma con i genitori non ne parlavano quasi mai, quelle poche volte che lo facevano assumevano un’espressione molto triste. Una volta la mamma aveva pure pianto e così preferirono tenersi per sé le loro conversazioni serali con la nonna. Così gli adulti non avrebbero pianto. Quell’insolita spettatrice aveva uno sguardo così dolce e saggio che si convinsero subito di avere a che fare con la nonna scomparsa e venuta a far visita ai nipoti sotto mentite spoglie.

Giocarono per lei e si divertirono parecchio. La partita si concluse in parità. Mirco, il più grande, sistemò l’attrezzatura mentre Mattia, il più piccolo, eseguiva gli ordini del fratello e teneva d’occhio Elsa. Anche per lui la signora era come la nonna e voleva tanto che gli raccontasse una delle sue storie preferite. Se le avesse detto il titolo, l’avrebbe sicuramente raccontata, come faceva la nonna.

Elsa, dal canto suo, osservando i due ragazzi giocare, aveva trovato una qualche similitudine della sua vita con la pallina e il suo movimento. Si rese conto che aveva passato la vita come quella pallina, rimbalzando da una parte all’altra delle scelte fatte e subite. Scelte di cui, forse, non ne fu sempre consapevole ma che avevano condizionato il corso della sua vita. Associarsi così, a quella pallina in movimento, le aveva dato l’impressione di aver colto la fonte della sua sottile malinconia. Una ritardataria presa di coscienza?

«Lei conosce la storia di Tom Sawyer?» domandò piano piano Mattia, voleva vedere se Elsa era la nonna scesa giù dal cielo per raccontare loro, ancora una volta, una delle sue storie preferite.

Elsa, colta di sorpresa, abbandonò le sue riflessioni e rispose: «Certo che la conosco. La leggevo spesso ai miei figli che ebbero la brillante idea di dare lo sciroppo per la tosse al gatto che avevamo. Erano dei birboni, proprio come Tom!».

Mirco e Mattia risero di gusto. Non c’erano dubbi, secondo loro era la nonna.

«Noi abitiamo qui vicino, se vuole, ogni tanto, passiamo a trovarla…» dissero i due ragazzi. «Così la racconta anche noi».

«Non abbiamo gatti e nemmeno steccati da far dipingere agli altri!» aggiunse Mirco facendo l’occhiolino. Con la nonna lo faceva sempre.
Elsa, a questa cortesia, si illuminò e indicò loro l’ospizio dove viveva.

Il giorno seguente Mirco e Mattia mantennero la promessa. Senza volere passarono attraverso alcune stanze di anziani sopraffatti dalla loro invalidità. Percepirono un senso di solitudine e una malinconia che, senza comprenderne le motivazioni, appesantì loro il cuore. Stavano per rinunciare a Elsa quando sentirono un brusio concitato e allegro provenire dalla sala comune. Lì si raccoglievano altri anziani che giocavano a carte, a scacchi, conversavano con tanto di scoppi di risa, per una battuta, un ricordo o uno scherzo di gioventù.Elsa era lì, in un angolo, che con aria mite ascoltava le fissazioni di Enore.

«Buongiorno ragazzi!» esclamò la vecchina appena li vide. «Questo è Enore, stavo giusto raccontando della vostra partita a ping pong di ieri…»

«Eh già, già… Da ragazzo ero un campioncino in questo gioco, sapete?» aggiunse Enore, mostrando loro il sorriso spensierato e un po’ sdentato, di chi rivive, raccontando, il tempo trascorso.

«Allora potrebbe insegnarci qualche trucchetto per migliorare. La scuola ha deciso di organizzare un piccolo torneo tra gli allievi» esclamò Mirco entusiasta.

«Non esiste mica solo il ping pong!» esclamò un vecchietto seduto al tavolo di fianco, alzando gli occhi dalle carte.

«Eh sì, ai nostri tempi non si aveva nulla, ma ce n’erano di giochi da fare!» ricordò nostalgica una signora, avvicinatasi dall’altra parte della stanza. Non era l’unica ad aver origliato. A quanto pare la comparsa di due fanciulli aveva rinforzato le vecchie orecchie dell’ospizio. Ora tutti gli anziani disquisivano sui giochi dei loro tempi e i due ragazzi ascoltavano attenti. Non si sa da dove comparve un elastico e una penna che diventò una piccola fionda. Obiettivo, colpire un bicchiere di plastica. Qualcuno raccontò di salti con le corde, di campana, indovinelli, di ruote di biciclette portate in giro con bastoni di legno. Di giochi inventati e di giochi dimenticati.

«Ehi Mirco, tutti questi signori conoscono la storia di Tom Sawyer… questa, a mamma e papà dobbiamo proprio raccontarla!» disse Mattia all’orecchio del fratello. Entrambi si stavano divertendo un mondo e non erano gli unici.

Il personale della casa di cura osservava, sulla porta, la scena. Divertiti, indugiavano prima di interromperla e prolungarono un po’ l’orario di visita. Il buonumore dei pazienti era, per tutti, salutare. Era come osservare una pallina rimbalzare, in armonia, tra l’infanzia e la senilità. Sembrava di vedere ciò che è stato e ciò che sarà nello stesso momento presente. Vecchi e giovani che giocano, insieme, riappropriandosi del ciclo naturale di tutte le cose.

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