Non è la prima volta che ospito Francesco Ambrosino nel mio blog, a livello narrativo l’hai già conosciuto attraverso I Want To Hold Your Hand.
In seguito ho avuto modo di leggere altri suoi racconti e, mi piacciono.
Ho deciso quindi di aprire una piccola rubrichetta nella quale ospitare i racconti di blogger e scrittori attivi sui social e sul web in generale.
Un’idea ancora allo stato embrionale ma che credo possa darmi e darti ulteriori spunti di riflessione attraverso la lettura di persone che scrivono senza secondi fini, solo per passione e voglia di mettersi in gioco e di confrontarsi con la realtà esterna.
La Pausa racconto di questo mese è Immobile. Una bella metafora della vita e delle illusioni che la compongono mentre per me è un omaggio all’inaspettato, al movimento che, inevitabili, emergono nella percezione di staticità che molto spesso si ha del tempo.
Difficile spiegarti quello che intendo dirti, ma forse è meglio che leggi il racconto così che tu possa darmi il tuo punto di vista. Potrebbe essere formulata una riflessione in grado di arricchirci entrambi. Tranquillo, Immobile è molto breve e questo, secondo me, ne fa un cammeo narrativo delizioso e piacevole da contemplare.
Pausa racconto di Francesco Ambrosino: Immobile
Io resto immobile. Per lavoro. Il mio lavoro consiste nel non muovermi. Mai. Rimango fermo, sul mio piedistallo, senza muovere un muscolo.
Non sento caldo, freddo, prurito, starnuti. Io non mi muovo. In villa, nel corso, in una piazza. È lì che lavoro. Mi posiziono, e non mi muovo.
L’unica cosa che può farmi muovere è il rumore di una moneta sul fondo del barattolo di latta posto ai miei piedi.
Eccomi qua. Vestito da Charlot. Non mi manca niente. Giacca troppo stretta, pantaloni laceri, scarpe rotte, baffetti, bombetta e bastone. Tutto l’occorrente, per mettere una maschera e diventare qualcun altro.
Si dice che se guardi un mimo negli occhi ti ruba l’anima. Non so se è vero. Per sicurezza, tengo sempre lo sguardo basso.
Tante persone si chiedono come faccia un mimo a non muoversi mai, ma la curiosità più diffusa è sempre la stessa. Tutti, indistintamente, si chiedono come faccia a non sentire lo stimolo di andare in bagno. Semplice. In quel momento, quando il mimo è lì, immobile, non esiste. E se non esiste non può fare la pipì.
La sua vita è appesa a quell’unico comando. Quell’unico rumore. Quello dei soldi. In fondo è così per tutti, solo che non lo vogliamo ammettere.
Sono un professionista. Non ho mai commesso errori. Nemmeno più i piccioni mi fanno distrarre.
Solo una volta ho ceduto.
Ero nella villa comunale, un giorno di primavera. I genitori passeggiavano con i bambini, le coppiette si scambiavano tenere effusioni sulle panchine. Tutto normale, ed io ero lì, immobile.
Appena sentivo il rumore di una moneta facevo il mio numero. Mi toglievo il cappello, facevo l’inchino, roteavo un po’ il bastone e ritornavo ad essere una statua. Un manichino.
Durante uno dei miei numeri, però, accadde una cosa strana. Mentre mi rialzavo da un inchino, il mio sguardo incrociò quello di una donna. Fu una questione di secondi. Solo uno sguardo, ma fu fatale.
Mi persi in quegli occhi castani. Erano dello stesso colore di una castagna appena caduta dall’albero. Mi stregarono.
Mi rialzai, lentamente, ma lei era sparita. La cercai con lo sguardo, ma niente. Era andata via.
Da quel giorno non sono stato più lo stesso. Non riuscivo più a stare fermo, immobile. Movimenti impercettibili per gli altri, ma enormi per me. Iniziai anche a sentire freddo, e caldo, ed il prurito, e lo stimolo della pipi’.
Ero finito. Non potevo più continuare. Così, decisi di smettere.
Avrei fatto solo un ultimo spettacolo, per fissare bene nella mia mente cosa significa vivere a comando.
Andai nel parco. Era ormai autunno. Il cielo era ricoperto di nuvole minacciose.
Mi sistemai il vestito, la bombetta, i baffi, il bastone. Salii sul piedistallo e feci il mio show. Il vento, il freddo, i tuoni in lontananza, non sentii niente. Né il prurito, né la pipi. Fui perfetto.
È così che deve ritirarsi un artista, facendo quello che sa fare, nel modo migliore.
Andai avanti tutto il pomeriggio. Il sole era quasi tramontato, quando la rividi. Stessa modalità. Alzai la testa dall’inchino e la vidi.
Quegli occhi. Erano così belli. Così profondi. Così vivi.
La salutai alzando il cappello e le sorrisi. Sorrise anche lei. Un ultimo sguardo, prima di scomparire. Guardai intorno a me, ma niente. Era andata via. Di nuovo.
Rimasi un attimo così, con lo sguardo perso nel vuoto. Poi, istintivamente, mi rimisi il cappello e assunsi la posizione.
Ritornai immobile. Fermo, impassibile. Non sentivo il freddo, il caldo, il prurito, gli starnuti. Nemmeno lo stimolo della pipì. Niente. Non sentivo niente.
E rimasi lì, fermo, immobile. Ma con il sorriso sulle labbra.
Photo Credits: Immagine in evidenza via Flickr, immagine Immobile via Francesco Ambrosino
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