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Esperienza: siamo numeri o persone?

8 Maggio 2015
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“Cercasi commessa max 25 anni con almeno 5/10 anni di esperienza nel settore”

Quante volte ti è capitato di leggere un annuncio simile? Non so se ne fanno ancora di questo stampo però quando avevo vent’anni e frequentavo l’università, questo era quello che trovavo e ora, che ho superato i trenta, sono oggettivamente troppo vecchia o mi manca comunque qualcosa. Al di là di questa considerazione, ho ripensato alla mia primissima esperienza lavorativa. Avevo 19 anni e mi ero trovata un lavoretto estivo al mercato ortofrutticolo, in una cooperativa che ora non esiste più.

Il post di oggi vuole essere una riflessione di ciò che ho imparato e su quello che dovrei aver acquisito in termini di esperienza.
Vieni a riflettere con me? Magari abbiamo dei punti in comune.

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Prima esperienza lavorativa, il mercato ortofrutticolo

Il lavoro era semplice, un po’ faticoso, ma semplice. Dovevo solo segnare e pesare la merce venduta e presentarmi in orario, alle 5:00 del mattino e, per pranzo, potevo tornarmene a casa. Nessun problema, anche se prima delle 9:00 di mattina e con due caffè in corpo, non esisto. Figuriamoci a 19 anni!

Quando suonava la sveglia parevo una talpa intontita dalla luce del sole, giravo in tondo per la stanza, mettevo i vestiti al contrario e salutavo il lettuccio con le lacrime agli occhi.

Però mi piaceva andare al mercato ortofrutticolo. In un orario in cui la notte non ha ancora ceduto il passo al giorno e il silenzio delle strade precede il risveglio.

Mi piaceva anche la sensazione che provavo quando, passo dopo passo, mi avvicinavo allo spazio adibito per le cooperative ortofrutticole, impegnate a rifornire negozi e supermercati. Prima indistinte, le voci (e le imprecazioni) degli operai si facevano più alte, chiare, impazienti ed insistenti, sormontate dal rombo dei camion in arrivo e dal cigolio dei muletti che spostavano i bancali da una parte all’altra. Tutti correvano. Il tempo è denaro, bisogna soddisfare in fretta le consegne. Produrre, produrre, produrre. Vendere, vendere, vendere. Mi pareva una gabbia di matti. Eppure era esaltante, pulsante, vitale, travolgente.

I primi tempi mi sentivo un po’ spaesata ma poi sono riuscita ad entrare in linea con quei ritmi frenetici e lavoravo, facevo esperienza. Avevo tre titolari, fratelli. Discutevo sempre con il più giovane perché, più che darmi degli ordini, me li urlava e sembrava che tutto quello che facessi non andasse mai bene. Era frustrante e mi sentivo una deficiente. Ad aumentare la pressione, l’impazienza dei clienti che si aspettavano di trovar la merce pronta nell’esatto momento in cui la ordinavano. Una, addirittura, la reclamava quando non aveva ancora raggiunto l’ingresso della ditta. La trovavo insopportabile e per evitar di sentirla gracchiare gliela facevo trovar pronta subito. Quando arrivava, non le davo nemmeno il tempo di aprir bocca che le avevo consegnato tutto.

Ogni tanto il padre dei miei titolari veniva a controllare l’andamento dell’attività da lui fondata. Il classico imprenditore fattosi su dal niente e che seppe sfruttare appieno il suo spirito d’intraprendenza. Mi faceva un po’ paura. Sembrava sempre sul punto di aggredirti al minimo errore, alla minima imprecisione. Un giorno entrai in ufficio a consegnargli una bolla e accadde una cosa strana. Sulla scrivania aveva appoggiato il portafoglio e stava riordinando le foto che vi conservava. Era sovrappensiero e io pensai di togliere il disturbo per ripassare in un secondo momento. Invece mi fermò e mi mostrò l’immagine della moglie. Era vedovo, mi indicò il figlio che più assomigliava alla donna perduta e poi mi guardò, in attesa. Non mi venne in mente altro da dire che si assomigliavano molto. Mi dispiaceva vedere uno sguardo così triste in una persona dall’aspetto così burbero. A quanto pare la mia risposta fu soddisfacente, ripose l’immagine nel portafogli, prese la bolla e mi congedò. Il tempo è denaro.

Che cosa mi ha insegnato questa mia prima esperienza lavorativa?

Bene, ora, Zanichelli alla mano, ti fornisco la definizione esatta del termine esperienza:

« Conoscenza diretta di qualcosa acquisita nel tempo attraverso l’osservazione e la pratica»

Secondo l’accezione filosofica:

«Conoscenza acquisita elaborando con la riflessione e verificando con l’esperimento i dati forniti dalla percezione sensibile».

La conoscenza e l’esperienza avvengono gradualmente e solo ora mi rendo conto con quante cose sono entrata in contatto in quel breve lasso di tempo e che, questa settimana, mi sono tornate in mente.

Anche se ero in un contesto parzialmente protetto grazie a mia madre, venni trattata come tutti gli altri e, per non cedere alla rabbia e alla frustrazione, dovetti cercare di adattarmi. Quando ci riuscivo, mi sembrava di sentirmi in armonia con il contesto e eseguivo i compiti richiesti.
Questo non voleva dire che accettavo di farmi maltrattare solo perché ero giovane e inesperta, quindi reagivo d’impulso. Non credo di aver mai mancato di rispetto nel farlo perché, in seguito, venni a sapere che le persone che non mi facilitavano l’esperienza lavorativa in atto, erano concordi nel ritenermi efficiente e affidabile. Addirittura, la cliente che reclamava in fretta ciò che aveva acquistato mi contattò per offrirmi un posto di lavoro, stagionale, nella sua azienda.

Ma quello che mi ha segnato di più è stato lo sguardo triste del mio titolare e la condivisione di un suo ricordo molto caro. In quel momento mi sono sentita trattata come una persona.

Ho 30 anni, sono senza lavoro e ciò che mi avvilisce è la convinzione comune che, nel mondo del lavoro gli esseri umani non siano altro che numeri atti a generare altri numeri. Ci si dimentica che la costruzione di uno stile di vita dignitoso è basato sui rapporti umani, sulla capacità di creare empatia, sul rispetto, sulla fiducia e sulla condivisione.

Interdipendenza e riconoscimento del valore altrui dovrebbero essere più importanti di requisiti e pretese unilaterali.

Chiedermi a un colloquio di lavoro se ho intenzione di aver figli, vuol dire vedermi come un numero. Dirmi di saltare, aspettandosi di sentirsi rispondere – quanto in alto? – non è una collaborazione equa, fondata sul reciproco riconoscimento del valore altrui. Dire il cliente ha sempre ragione, ad ogni costo, non è leale. Sminuisce il lavoratore che cerca di prevederne e soddisfarne le esigenze e sminuisce anche il cliente il quale, più che una persona, diventa un portafoglio parlante.

La mia prima esperienza è stata dura perché ho dovuto dimostrare di essere in grado di costruirmi delle competenze ma la mia persona e i miei valori, quelli no, non vennero mai messi in discussione. È stato traumatico, invece, vivere realtà e rapporti professionali che di valore umano avevano solo la parvenza.

Voglio essere una persona pronta a collaborare e costruire con altre persone, non voglio essere un numero.
Fino a poco tempo fa, credevo che questa mia utopia non fosse realizzabile ma la scrittura e, ironia della sorte, la realtà virtuale mi fanno intravedere uno spiraglio di speranza perché chi vi lavora, lavora sulla costruzione basata sull’acquisizione e sulla condivisione, in svolgimento, di conoscenza, rapporti umani ed esperienza. O almeno, così dovrebbe essere.

E tu che ne pensi? Ti senti numero o persona?

Photo Credits: via pixabay.com

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4 Comments

  • Reply Paola 8 Maggio 2015 at 12:29

    Bellissimo post, Rita. Condivido ogni tua parola. Ti dico anche che c’è modo e modo di essere numeri: confusi e sparpagliati, oppure su una stessa lunghezza d’onda e “sistemici”. E noi di #adotta1blogger siamo di questa razza! 😉

  • Reply Rita Fortunato 8 Maggio 2015 at 20:45

    Grazie Paola, sei un tesoro e sono felice di far parte del tuo progetto! 😀

  • Reply Annarita Tranfici 11 Febbraio 2016 at 16:33

    Un post bellissimo. Complimenti, Rita. Condivido pienamente il tuo punto di vista e credo che, se ci si soffermasse a misurare il valore che una persona può apportare, non semplicemente in termini economici ma attraverso la condivisione delle proprie esperienze e l’offerta delle proprie competenze, tutto sarebbe migliore. Ciononostante, il ritrovarsi in gruppi che fanno della crescita attraverso la collaborazione la propria filosofia di vita e il proprio punto di forza, aiuta a pensare che non tutto sia perduto. 🙂
    Complimenti ancora!

    • Reply Rita Fortunato 12 Febbraio 2016 at 9:07

      Grazie, Annarita! 😀
      Hai fatto un’analisi sensibile e intelligente di quanto cercavo di dire e sì, hai ragione, a stare con persone desiderose di crescere e collaborare aiuta a vedere le cose da una prospettiva più positiva (e meno numerica). 🙂

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